Corriere dello Sport (Roma)

«I miei 70 anni di cuore Lazio»

«Quando arrivai qui pensai di non farcela la storia cambiò con Chinaglia e Maestrelli I tifosi mi hanno regalato un altro scudetto»

- BARTOLETTI ©RIPRODUZIO­NE RISERVATA

termine del ritiro, ci concesse due giorni di riposo. Tornammo in campo, il giorno dopo avremmo dovuto giocare una partita contro la Fiorentina campione d’Italia. Lorenzo, durante la riunione tecnica, annunciò la formazione e mi citò come terzino destro. Mi meravigliò. Io ero una riserva, mi disse “lei gioca dal primo minuto”».

Non fu contento?

«Avrei affrontato Amarildo, mica nessuno. Si veniva da due giorni di riposo, pensavo di non giocare, quando è così mentalment­e non sei al top».

Come andò?

«Amarildo non lo presi neppure una volta eppure cercai di dargli qualche botta. Dopo quella partita decisi che la serie A era troppo per me. Chiamai il vicepresid­ente dell’Internapol­i, nonché mio compare d’anello, l’avvocato Piscitelli. Gli dissi “voglio tornare da voi”. Mi rispose “ok, mi metto in moto”. Sapeva che era solo una questione di ambientame­nto, mi conosceva più di quanto potessi conoscermi io. Piscitelli non chiamò nessuno, arrivò la prima di campionato, debuttai con la Lazio contro il Torino, da allora giocai sempre. Lorenzo mi utilizzò da libero, mi scelse come capitano. Maestrelli, quando arrivò, mi confermò».

Quale fu l’impatto di Maestrelli?

«Lorenzo a quel tempo era il mito dei tifosi, gli fu perdonato tutto. L’arrivo di Maestrelli contrastò moltissimo con il suo esonero. Alcuni risultati negativi, mi riferisco alla prima gestione Maestrelli, fecero scattare la contestazi­one verso Tommaso. Eravamo al “Flaminio”, il mister andò sotto gli spalti, parlò con i tifosi, fu un segno di grande personalit­à. Da allora capimmo, quello lì era un uomo vero. Da quel giorno nacque un rapporto che si sarebbe protratto nel tempo con alcuni di noi, sino al giorno in cui è venuto a mancare».

Nacque la Lazio del primo scudetto...

«Vincemmo il campionato di B, eravamo più forti degli altri, ci aspettavan­o su tutti i campi. In seguito furono bravi Sbardella, il nostro diesse, e Tommaso. Sbardella fece mercato con una sola cessione, quella di Massa. Prese giocatori determinan­ti per il futuro: Frustalupi, Re Cecconi, Pulici, Garlaschel­li».

Parliamo di Giorgio Chinaglia, siete stati “fratelli”.

«Ci siamo conosciuti nel 1967, nell’Internapol­i. Fu acquistato dalla Massese dall’ingegner De Gaudio, lo pagò 80 milioni».

Quando capì che era unico?

«Eravamo in ritiro ad Ariano Irpino, lui pesava 100-110 chilogramm­i. Sotto l’albergo c’era un mercato all’aperto, era chiuso. Giorgio mi disse “andiamo a prendere un po’ di frutta”. Risposi “ma chi si lancia da qui?”. Eravamo al primo piano, lui replicò “mi butto io”. Calammo un lenzuolo dal balcone, riuscimmo a far scendere Giorgio. Il problema fu tirarlo su, non ci riuscimmo, mollammo il lenzuolo e Giorgio cadde sulle cassette della frutta (risata, ndr). Pensai “questo è costato 80 milioni, non gioca più, siamo finiti”. E’ stato un personaggi­o unico, il più unico che abbia mai conosciuto. Altre squadre hanno avuto dei matti, come lui no. Mi viene in mente un altro ricordo».

Quale?

«Eravamo sempre nell’Internapol­i, andammo a giocare ad Agrigento. Io e Valle, un altro dei senatori della squadra, chiamammo l’allenatore. “Mister, con Chinaglia giochiamo in 10”, furono le nostre parole. Il tecnico ci pensò, quando diede la formazione Giorgio non c’era. Rimase stupito, ci guardò, ci alzammo per andare via e lui disse “non gioco?”. Giorgio rimase in albergo, non venne al campo. Mancavano 8 minuti alla fine della gara, vincevamo 1-0, alla fine perdemmo 2-1. Dagli spalti sentimmo uno che gridava “Akragas, Akragas”. Aveva una bottiglia in mano, era Chinaglia».

Wilson e Chinaglia, una vita parallela.

«Internapol­i, Lazio, Nazionale di C e di A, Mondiale, Cosmos. Giorgio era un fratello, ma non ci frequentav­amo fuori dal campo come si può pensare. Siamo usciti una o due volte con le famiglie, non ricordo altre occasioni. C’era rispetto per un’amicizia vera».

Chinaglia andava spesso a casa del Maestro, questo fece nascere qualche chiacchier­a nello spogliatoi­o della Lazio?

«No. Tommaso era al di sopra di qualsiasi tipo di chiacchier­a. Qualcuno di noi forse era geloso dell’affetto che il mister aveva nei cronfronti di Giorgio, ma non il contrario. Io ne parlai con Maestrelli, mi rispose “tu lo conosci meglio di tutti, devo prenderlo in un certo modo, gli voglio bene perché è un ragazzo d’oro”. Solo così poteva gestirlo. Quando scoppiò il caos ai Mondiali del 1974 (dopo la sostituzio­ne di Chinaglia decisa da Valcareggi, ndr) fui costretto a chiamare Tommaso. Arrivò in aerotaxi, gli dissi “venga qui perché altrimenti ci cacciano tutti”. Tommaso calmò Giorgio, parlò con Valcareggi. Mastrelli parlava con tutti e tutti lo rispettava­no. E poi...».

Continui, continui.

«Due giorni prima del match con l’Argentina mi chiamò Valcareggi, disse “sai cosa ha combinato Chinaglia? Ha bussato alla mia porta a mezzanotte, aveva un foglio in mano, c’era scritta la formazione che doveva giocare”. Lui era così».

In quell’Italia c’erano anche Rivera e Mazzola, come sopportava­no Chinaglia?

«In quella squadra c’era astio, non c’è stato gruppo, ecco perché fallì».

Wilson, secondo lei chi è stato il difensore più forte in assoluto?

«Dico Burgnich, il top. Non ho mai detto nulla quando ha giocato da libero, è stato il più grande difensore del mondo. Ho fatto polemica quando fu scelto Facchetti. E come avviene in questi casi non fui più convocato...».

Qual è stato l’avversario più difficile da affrontare?

«Mazzola, quando giocava di rimanessi. Dissi di no, avevo firmato con il presidente Lenzini, mi propose il ruolo di diggì a fine carriera. In America mi offrivano ogni giorno più soldi, soltanto un irrazional­e poteva rifiutarli. Chinaglia se la prese, non parlammo per sei mesi. Mi sentivo padrone della Lazio, non c’erano soldi che tenessero. Poi venne la parentesi dell’80. Fui quello che ebbe la squalifica minore, tre anni condonati con il Mondiale».

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«Altri sono rientrati, io forse ho avuto il pudore di uscire, il rapporto tra me e i tifosi non era un rapporto normale. Per fortuna li ho riconquist­ati, è stato il mio secondo scudetto. Giorgio mi chiese di tornare a giocare nella Lazio nel 1983, eravamo nello studio del notaio Gilardoni. Risposi “no, non posso, non si può fare”. Non ero uno qualsiasi che tornava a giocare, non sarebbe stato bello né per lui né per me. Ho pagato con quel no, ero il capitano, il numero uno, non potevo davvero. Prima o dopo le cose rinascono, ho avuto la possibilit­à di rientrare accanto alla Lazio, nel suo mondo, anche se in un modo diverso. E’ bello essere ancora chiamato capitano».

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Oggi Wilson cosa prova?

«Sto ricevendo un’altra volta l’affetto dei tifosi laziali. Sono rientrato negli ultimi 7-8 anni grazie a Radio Sei e devo ringraziar­e anche Giancarlo Oddi, mi ha dato affetto e tanta forza. La cosa più bella l’ho vissuta proprio con Giancarlo quando un anno e mezzo fa abbiamo portato da soli ben 65mila tifosi all’Olimpico per l’evento “Di padre in figlio”. E’ stato il regalo più bello. Ci rivedremo a maggio...».

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Pino Wilson compie oggi 70 anni: è stato il capitano della Lazio campione d’Italia nella stagione 1973-1974

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