Corriere dello Sport Stadio (Bologna)
Birindelli: Bisogna allenare i genitori
«Risse sugli spalti? Ritirai la squadra e... Occorrono dialogo e più rispetto dei ruoli»
«Capita molto più spesso di quello che si possa pensare, tutti i fine settimana. Bisognerebbe parlarne di più». Alessandro Birindelli, campione plurititolato con la Juventus, da allenatore ha deciso di dedicarsi al settore giovanile: è stato responsabile del vivaio del Pisa, l’anno scorso era al Trapani, oggi dirige una scuola calcio a Pisa.
Birindelli, due anni fa lei ritirò la squadra dal campo perché sugli spalti era nata una rissa tra genitori. E fu squalificato... «E il giudice ci diede la partita persa... Il mio fu un segnale per far cambire qualcosa, anche a livello di regolamento, che è obsoleto. Le istituzione devono fare la loro parte: non basta dire che i genitori, come quelli di Torino, hanno sbagliato. Inutile lamentarsi se non lavoriamo alle basi dello sport».
Per esempio? «Premiare le scuole calcio che mettono la socializzazione e l’etica al primo posto invece che stare dietro al risultato o alla riscossione delle quote di iscrizione. Perché poi, a quel punto, per non perdere i soldi, ai genitori viene permesso di tutto. La Figc dovrebbe vigilare di più».
Che tipo di genitori incontra nella sua attività? «Di tutti i tipi. Noi dobbiamo essere bravi a far capire loro come si tifa e come ci si comporta. Molti non provengono dal mondo sportivo, bisogna spiegargli che devono venire a tifare per il proprio figlio e non contro l’altra squadra o l’arbitro, e che non devono trasformarsi nell’allenatore».
Già, perché ci sono i genitori-manager, tutti con il figlio fuoriclasse... «Capita spesso che i genitori ci provino, sta all’allenatore imporsi con la leadership: io certe cose non le accetto. Certo, c’è anche il confronto, con i bambini e con i genitori. Come posso aiutare un ragazzo nel suo percorso di crescita se non dialogo con la famiglia?».
Questa aggressività dei genitori è frutto di aspettative distorte? «Per molte famiglie, magari quelle che non arrivano alla fine del mese, è così: sperano che il bambino diventi un calciatore, che possa avere una carriera di successo. Sta a noi agire in modo che abbiano i giusti comportamenti, ma se i tecnici come me poi hanno il vuoto intorno, è difficile cambiare».
Da quando era lei un giovane del vivaio, in cosa è cambiato l’approccio delle famiglie? «In trent’anni è cambiato tutto. Prima i genitori erano più rispettosi dei ruoli, oggi il babbo vuole essere allenatore, presidente, arbitro...
Così non ci sono punti di riferimento. Avevo maestri severi, io; oggi se urli al bimbo, il genitore interviene e ti denuncia. Per questo serve la giusta comunicazione, con tutti, in modo da coinvolgere i genitori. I ragazzini sono cambiati: hanno tutto, sanno tutto, ricevono mille stimoli. Per avere la loro fiducia devi trattarli alla pari e responsabilizzarli».
Perché continua a lavorare nel vivaio? «Sto lottando per diffondere la carta dei doveri dei genitori. Che alla fine sono come altri bimbi: li alleni perché possano imparare a tifare e a capire il tuo lavoro sul campo. Il secondo punto del decalogo è importantissimo: devo portare mio figlio a fare sport perché si diverte, perché gli piace, perché gli fa bene. Ma deve essere lui a scegliere. Poi, se potrà diventare un discorso professionale, lo riconoscerà il ragazzo più avanti. Serve la collaborazione con la scuola e bisogna avere dialogo con i genitori. E bisogna combattere l’esasperazione del risultato».