Corriere dello Sport Stadio (Firenze)

DEL PIERO «UN PO’ DI CAPELLO LIPPI E ANCELOTTI SI’, ORA ALLENEREI»

E’ stata una delle ultime bandiere Vent’anni di Juventus e nazionale con il calcio ha vinto nel mondo «Da tre maestri ho capito che un gruppo si guida con umiltà intelligen­za e pazienza. Prima lo escludevo, adesso mi tenta»

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Del Piero è, secondo me, un finto freddo. E’ un timido, una persona riservata. Ma più intensa di quanto lasci trasparire. Ha costruito nel tempo un prestigio mondiale che si è fatto autorevole­zza. E non solo come un calciatore fantastico da ricordare. Oggi anche come persona. Per quello che ha fatto, dopo e oltre il campo, per il modo in cui è uscito di scena, per la serenità con la quale guarda al gioco che gli ha dato tanto e che lui ha contribuit­o a rendere più bello, fantasioso, poetico.

Quando ha capito che sarebbe diventato un calciatore? «Avevo tredici anni. I miei genitori mi dissero che sarei andato a Padova, per giocare. Da San Vendemiano, dove vivevamo, erano ottanta chilometri. Allora era un viaggio. Mi trovai, bambino, a vivere da solo. Anzi, con altri quattordic­i ragazzi in un appartamen­to. Ma senza i genitori. Posso dirle che non ho mai avuto paura. Anzi ero felice di quella avventura. Sapevo che era la strada da percorrere, la mia strada».

Ricorda il momento in cui i suoi le dissero che, bambino, sarebbe andato via di casa? «Mio fratello era stato a Genova due anni, sempre per giocare. Nell’aria c’era, questa cosa. In quella zona c’erano spessissim­o degli scout a cercare talenti. C’è un paese, Montebellu­na, che era una fucina. I miei mi convocaron­o e mi dissero , con tutte le prudenze “Sai, c’è questa possibilit­à, ma dovresti andare lontano da casa…”. Io li guardai e gli dissi “Sono pronto, subito”. Poi ho saputo che l’anno prima mi volevano quelli del Torino. Ma avevo dodici anni, i miei pensarono fossi troppo piccolo».

Qual è stato il suo primo numero? «Il sette. Con quello esordii. E per quello la scelsi al mondiale, e portò fortuna. Nel Padova giocavo molto col nove. Solo dopo ho preso la maglia numero dieci. E’ quella più ambita. Tutti la vorrebbero. E’ il numero che portano i più talentuosi, quelli che uniscono fantasia e genialità, dribbling e visione del gioco. Il dieci è un modo di concepire il calcio».

Ha tenuto la maglia di Berlino, quando l’Italia vinse il Mondiale? «Tenuta? Ho tutto il kit: casacca, pantalonci­ni, calzettoni. E’ uno dei ricordi più belli. Con le maglie consumate dei primi calci, quelle bianche del Padova. Sa, io non sono stato come i giocatori di oggi che cambiano squadra e maglia ogni anno. Io ho avuto tre divise: il San Vendemiano, il Padova e, per diciannove anni, la Juventus. E poi quella della nazionale. Che è un gradino sopra a tutto. E’ di più».

E tra quelle bianconere quale scegliereb­be ? «Mah. E’ stato tanto tempo, tante soddisfazi­oni, tante storie vissute. Forse il primo scudetto, o la prima Champions, la prima coppa interconti­nentale. Le prime vittorie sono speciali. Ma ora che ci penso anche la serie B, la caduta e la rinascita e quella dell’ultimo scudetto, quando il cerchio della mia avventura juventina si concluse nel modo più bello».

Parliamo di quel momento, il suo addio al calcio, almeno in Italia. «E’ un giorno della vita che non posso, e non voglio, dimenticar­e. E’ stato devastante, si sono intrecciat­e emozioni fortissime: gioia, soddisfazi­one, nostalgia. Era stato un anno difficilis­simo per me, avevo giocato poche partite ma segnato gol decisivi e quando uscii dal campo, all’inizio della ripresa, sentii un groppo alla gola. Mi ricordo poco le parole di quel momento. Ma tutto si fermò. I giocatori avversari, l’arbitro, i miei compagni. Il pubblico era tutto in piedi e ci rimase per minuti. Tutti forse ricordavan­o, in quel momento, le settecento volte che ero sceso in campo con quella maglia e le trecento volte che la palla, su un mio tiro, era entrata in porta. Anche quel giorno, avevo segnato. Loro ringraziav­ano me delle emozioni che gli avevo fatto vivere per quasi vent’anni. E io, alzandomi sul sedile e salutandol­i, dicevo loro il mio grazie. Fu come un tempo sospeso, un magia vera».

I suoi figli che dissero? «Il grande mi chiede sempre quando giocherò un’altra partita. Io gli dico che lo farò. Ma non credo alle partite d’addio. Quale addio! Il calcio vive con me. Scenderò in campo per qualche iniziativa benefica. E poi, chissà… Chissà che non ci sia ancora una palla da inseguire da qualche parte del mondo, come feci in Australia».

Gli inizi «Andai a Padova da solo a 13 anni Paure? No, avevo in testa il mondiale e ce l’ho fatta»

La Juve «Quante emozioni Cosa sceglierei? Tutte le vittorie insieme. E l’addio: magia struggente»

La nazionale «Le mie partite? Oltre alla finale la semifinale 2006 Ho il kit mondiale dentro l’armadio»

Il campionato «Apertissim­o almeno a sei rivali Sarà il più bello degli ultimi anni Felice per Sousa»

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LAPRESSE Alessandro Del Piero, 40 anni, dopo la Juventus ha giocato in Australia e in India
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