Corriere dello Sport Stadio (Firenze)

FREY Sono stanco del calcio

«Smetto, non voglio avvelenare i miei ricordi Il pallone si è sporcato, ma si può ancora pulire»

- Di Alessandra Giardini

a Cristiano. Non sanno che cosa è stato Ronaldo quello vero. Quella sera dissi al mio procurator­e: io voglio venire qui, in questa squadra».

Il principio «All’Inter mi sembrava di essere al cinema, col popcorn: stavo in porta e vedevo allenarsi Ronaldo e Baggio»

Le sfide «A Parma non avevo pensato che avrei dovuto sostituire Buffon: io venivo dall’Inter... Ma poi me ne accorsi»

I modelli «Non tornerò ma se un giorno facessi l’allenatore vorrei copiare Mourinho, fa da scudo ai suoi giocatori»

Non dev’essere stato semplice. «A Marsiglia sarei stato praticamen­te a casa, avrei fatto meno fatica. Ma così sono diventato adulto in fretta. E’ stato difficile, mi hanno aiutato soprattutt­o quelli che parlavano francese, Cauet è stato un altro padre per me, anche Taribo West nella sua pazzia ha dato un contributo. Mi costrinsi a imparare l’italiano alla svelta. E l’Inter allora era una famiglia. Non voglio dire che trattasser­o Frey come Ronaldo, ma a livello umano eravamo tutti uguali. Oggi questo si è perso. Il primo anno mi allenavo e continuavo a guardare Ronaldo e Baggio. Potevo anche andare in porta con gli occhialini per il 3d e il popcorn, come al cinema».

Invece se ne andò a Verona.

Sebastien Frey nel giardino della sua casa di Nizza, circondato da tutte le sue maglie

ha ritrovato più avanti a Firenze. «In tanti anni si è creato un gran rapporto di lavoro, c’è stata stima reciproca e poco di più».

Avete vissuto il crac di Tanzi. «Non voglio entrare in quello che Tanzi ha fatto nella Parmalat, è qualcosa di imperdonab­ile. Ma del mio presidente io posso parlare solo bene, mi ha fatto stare bene, mi ha sempre dato rispetto».

Come ricorda quello che successe? «Dalla sera alla mattina ci dissero che non c’erano più soldi. Avevamo due strade: potevamo mettere in mora la società e fare una figura di merda, o finire il campionato con onore. Arrivammo quinti, lottando per un posto in Champions fino a due giornate dalla fine. Ringrazio tutti i miei compagni di quel Parma, uomini veri».

«Ho cercato di proteggere mio figlio dal calcio. Non ci sono riuscito: gioca nel Milan, gli auguro di farcela»

Il Parma lo lasciò comunque in A. «Lo avevo promesso. Lo spareggio di Bologna rimane uno dei giorni più emozionant­i della mia carriera: non ho dormito la sera prima, non mi è mai successo, io sono uno che alle nove va a letto e alle dieci dorme».

E adesso il Parma è in Serie D. «Quello che è successo è una tristezza. Peggio: uno schifo. Una squadra storica del calcio italiano, che ha avuto campioni incredibil­i. Ma vedo che la gente sta seguendo la nuova società. Bello».

Scala crede nel calcio biologico, senza veleni. Lo vuole portare fino alla Serie A. «Può essere un bel sogno, ma sarà difficile arrivare fino ai massimi livelli con questi principi. E’ difficile che una società possa controllar­e proprio tutto».

Da Parma a Firenze. «Un colpo di fulmine. E’ la città ideale, bella che non ti stanchi mai di guardarla. E piena di calore, di passione. Quando mi feci male il chirurgo mi disse che forse avrei dovuto smettere di giocare. Invece ce la feci. A Firenze sono state stagioni bellissime, quasi miracolose».

E anche lì un bel guaio, calciopoli. «Lo sentimmo in tivù, ci sembrava uno scherzo. Come quando ci dissero che potevamo rimanere in A, ma partendo da meno diciannove. Mi ricordo le due classifich­e che mettemmo negli spogliatoi, quella vera e quella conquistat­a sul campo. La penalità ci diede una forza incredibil­e, chiusi in una bolla tirammo fuori tutto quello che avevamo, e anche di più».

Ha amici nel mondo del calcio? «No. Conoscenti tanti. Molte persone a cui voglio bene. Ma amici amici no. I miei amici sono quelli di quando ero piccolo. Bruno vive a Parigi, ma Mario è ancora a Nizza, giochiamo a tennis, ci vediamo tutti i giorni».

Lei ha giocato con Paulo Sousa. «Veramente giocava lui, io no. Era il primo anno all’Inter. Quando l’ho visto adesso non l’ho riconosciu­to, ma quanto è magro? Allora era un campione internazio­nale, bellissimo, c’era la fila delle ragazzine fuori dalla Pinetina. Ed era uno di quelli che mi hanno trasmesso valori di una volta: se vedeva uno dei giovani sul lettino dei massaggi, lo prendeva per un orecchio e lo tirava giù, diceva che i giovani non hanno bisogno di massaggi. Magari ti può sembrare un discorso da caserma, ma certi valori ai giovani vanno trasmessi. Adesso se a fine allenament­o chiedi a un ragazzo di raccoglier­e i palloni ti manda a quel paese. O telefona al suo procurator­e per lamentarsi».

Se un giorno decidesse di diventare allenatore, a chi vorrebbe assomiglia­re? «A Mourinho. E’ uno che fa da scudo ai suoi giocatori, fa la parte dell’antipatico per proteggerl­i. E’ una qualità che non ha prezzo. Infatti fra i giocatori sono pochissimi quelli che ne parlano male».

E se facesse una pazzia, se diventasse presidente di una società? «Vorrei avere la bontà di Moratti, che per noi era un padre, la gentilezza di Tanzi, la classe dei Della Valle, grandi imprendito­ri che dal niente hanno creato una grande squadra, e (pensa parecchio alla parola da usare, poi pesca nel suo italiano impeccabil­e, ndr) l’originalit­à di Preziosi, che ha creduto in me quando avevo trent’anni».

Sebastien, si sente in guerra? «Il nostro presidente l’ha chiamata guerra, io preferisco dire che c’è una situazione molto delicata da risolvere. Ho paura. Perché la Francia è casa mia, e sono entrati in casa nostra. Io ero all’Opera di Nizza quando c’è stato l’attacco a Parigi, per tre giorni sono rimasto sveglio tutta la notte a guardare telegiorna­li, per quattro giorni non sono uscito di casa. Però non si può smettere di vivere. Certo, da padre ho molta paura».

Che cos’è per lei la religione? «Un appoggio, un punto di riferiment­o. Mi sono avvicinato al buddismo dopo l’infortunio. Ero pieno di dubbi, di incertezze, telefonai a Baggio e gli spiegai la mia debolezza. Avevo sempre avvertito un’onda strana venire da lui, Roberto è uno che trasmette serenità. Mi mise in contatto con Maurizio, e lui col buddismo. La fede mi ha cambiato la vita».

Come si può uccidere in nome della religione? «E’ una bugia. Nessuna religione chiede questo ai suoi fedeli, non esiste».

In Turchia aveva avvertito che qualcosa stava cambiando? «Non fino allo scorso gennaio. Dopo l’agguato di Charlie Hebdo il governo ci mandò una mail dicendo che se le cose fosse- le presenze di Frey con la Nazionale francese, l’ultima nel 2008. il trofeo vinto in carriera: la coppa Italia 2002 con il Parma.

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FOTO CLAUDIO VILLA

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