Corriere dello Sport Stadio (Firenze)

Il prossimo Frey

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Seduto in un caffè di via Montenapol­eone, fra le luci di Natale e le vetrine sciccose, Seba Frey si fa subito notare. I paparazzi - beh, sì, qui ci sono ancora - ci mettono pochi minuti a circondarc­i. E lui dà loro quello che vogliono, perché no. Consiglia di tornare più tardi, quando Inès, la giovane compagna che ha reso sopportabi­li o addirittur­a felici le ultime due stagioni a Bursa, a tre quarti d’ora di traghetto da Istanbul, tornerà da un giro di shopping, «non era mai stata a Milano, sembra una bambina». Inès volteggia lieve fra i negozi scintillan­ti, Seba racconta il calcio, i figli, le donne, la sua mattinata difficile fra avvocato, commercial­ista e fiscalista. Parliamo di mare, di teatro, di terrorismo, di religioni. Di libri, di quei film che non puoi assolutame­nte perdere, e lui alla fine si arrende e promette che andrà a vedere Mustang. Molte ore più tardi, davanti agli avanzi dei caffè, dei cioccolati­ni fondenti e di un mojito analcolico, avremo capito meglio tutti il senso di quella prima frase anticipata al telefono. «Smetto, non gioco più, mi sono stancato».

A trentacinq­ue anni è un po’ presto. «Sono stanco psicologic­amente. L’ultima esperienza in Turchia è stata la botta definitiva. Ma negli ultimi tre o quattro anni mi sono accorto che questo mondo mi appartiene sempre di meno. Avevo un’altra stagione di contratto, ma non volevo avvelenare il ricordo che ho del calcio. E’ stato la mia vita, non posso andare in campo solo per prendere lo stipendio».

Che cosa è successo? Quali valori si sono persi? «Quando ho cominciato a giocare c’era rispetto. La parola di una persona aveva lo stesso valore di una firma, adesso non contano neanche le firme. E a me non piace».

Lippi dice che i ragazzi non pensano più calcio. «Io ci vado a vedere i ragazzini, anche mio figlio Daniel gioca. Può darsi che sia colpa dei genitori, non lo so, ma dagli undici anni in poi hanno in testa le cose sbagliate. Pensano di essere Messi, o Cristiano Ronaldo. Vogliono la macchina grossa, le scarpe con il nome sopra, il calcio lo pensano meno. Io non so cosa darei per tornare all’età in cui pensi soltanto a portare il pallone, nel mio caso i guanti, e ad andare a giocare con i tuoi amici».

A Cannes c’erano la scuola e il calcio, e dai quindici anni in poi soltanto il calcio. «Era l’unica cosa che avevo in testa, diventare un calciatore. Ho lavorato tanto per riuscirci. Poi ci vuole anche fortuna. Ho esordito a 17 anni perché il titolare si ruppe l’arteria femorale giocando a bocce. Poche ore dopo ero in porta, e da lì ho sempre giocato».

A 18 anni si trasferì in Italia, all’Inter. «Mi volevano il Marsiglia e il Bologna. Ma andai a vedere una partita di Uefa dell’Inter contro lo Strasburgo. Allora il calcio estero non lo vedevi tanto in tivù, in Francia conoscevam­o soltanto la Juve di Platini. Per me lo stadio erano cinquemila persone, poco più. Quella sera San Siro era pieno, Moratti mi regalò un cappotto, ce l’ho ancora nell’armadio. Poi andai negli spogliatoi e mi presentaro­no Djorkaeff, Cauet, Taribo West. Vidi passare Ronaldo a un metro da me. Le generazion­i di oggi non sanno cosa si sono perse. Dici Ronaldo e pensano

«L’Inter aveva comprato Peruzzi, una leggenda, un mostro. Non sapevo quanto avrei giocato. Mi voleva il Napoli, ma i rapporti fra i club resero più facile il passaggio al Verona. Arrivai dopo l’Europeo, Prandelli aveva dato tre giorni di vacanza alla squadra, io li passai correndo nei boschi con il preparator­e. Piangevo tutte le sere, telefonavo ai miei e dicevo che volevo tornare a casa».

I valori «I ragazzi pensano poco al calcio. A undici anni si credono Messi, immaginano già le scarpe col nome»

Non era il titolare. «No, c’era Graziano Battistini. Si fece espellere contro il Parma, entrai al suo posto e da quel momento giocai sempre io. A fine stagione mi diedero il Guerin d’oro come miglior portiere».

E tornò all’Inter. «Non mi arrivavano grandi segnali. Un giorno mi chiamò la Lazio e io rilasciai un’intervista: se non mi vuole l’Inter andrò alla Lazio. Poi andai a trovare i miei nonni. Stavo parcheggia­ndo e sentii squillare il telefono. Era Lippi. Bisogna capire, Lippi. Io ero soltanto Frey. Mi chiama e mi fa: perché hai detto quelle cose? E io: perché non mi fermo, non torno a fare il secondo. Lui non si arrabbiò neanche: mi disse di stare tranquillo, che sarei stato il titolare dell’Inter. Non sapevo più cosa dire. Mantenne la parola. Marcello è così: un toscano senza filtri, in questo mondo siamo in pochi. Proprio per questo dopo la sconfitta di Reggio Calabria disse che avrebbe preso i giocatori a calci nel culo. Lì si ruppe qualcosa, e lui pagò col posto. La stagione finì malissimo. Il derby perso sei a zero è stata una delle serate più lunghe della mia vita. Continuavo a pensare: perché io? Perché proprio a me? Il Milan sembrava posseduto, noi paralizzat­i. E da lì alla fine del campionato fu un incubo».

Per quello se ne andò? «Chiesi a Moratti che intenzioni aveva, ma non mi dava grandi risposte. Non potevo pensare a un’altra stagione come l’ultima. Mi voleva la Roma di Capello, ma l’Inter disse che ero incedibile. La verità è che non volevano cedermi alla Roma. Rimasi per un po’ in mezzo alla strada, poi l’Inter prese Toldo e io andai al Parma per 45 miliardi di lire».

Come le è venuto in mente di andare a sostituire Buffon? «Sinceramen­te non ci ho neanche pensato. Io ero Frey, venivo dall’Inter, non vorrei passare per presuntuos­o ma non avevo nessun problema. Invece nei primi mesi a Parma mi accorsi di cosa voleva dire. Fu una stagione strana: vincemmo la coppa Italia ma ci salvammo a due giornate dalla fine facendo una fatica allucinant­e».

Quello rimane il suo unico successo. Non è strano? «Per vincere ci vuole la fortuna di capitare in un gruppo vincente nel momento giusto».

Poi arrivò Prandelli, come a Verona. E lo

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