Corriere dello Sport Stadio (Firenze)
Rivera: Il mio calcio, la politica e il futuro dei giovani
«Mio padre mi ha trasmesso la passione per il pallone. Alle società dico: curate la crescita tecnica, non i risultati»
Ci sono storie che non smetteresti mai di raccontare, perché negli occhi di chi è lì davanti a te leggi tutta la voglia di starle ad ascoltare, ancora e ancora. Ma certe storie, a un certo punto, vanno anche scritte, buttando giù parola dopo parola. Per gli altri, ma certamente anche per se stessi, o forse innanzitutto per se stessi: scrivere vuol dire oggettivizzare e rileggersi vuol dire guardarsi dentro da un’altra prospettiva. A Gianni Rivera l’idea frullava in mente da un po,’ aveva iniziato a raccogliere appunti e riordinare i ricordi, e poi... Poi ha messo mano a quell’immensa collezione messa insieme negli anni da suo padre, «tanto materiale che lui ha tenuto da parte, anno per anno, materiale che con mia moglie Laura abbiamo deciso di tenere e catalogare. Lei ha fatto la vera fatica, io sono l’unico che di questi tempi scrive una biografia da solo, senza l’aiuto di uno scrittore o di un giornalista. Nessun editore voleva stampare un libro come questo, ci avventuriamo da soli».
S’intitola “Gianni Rivera. Autobiografia di un campione”. Più che un libro, è un catalogo d’arte ed è giusto così, perché ripercorrere le giocate (non necessriamente quelle del campo) del Golden Boy è avventurarsi nella dimensione propria dei capolavori. Una biografia pop, con tante immagini e pure i link multimediali ai filmati: il bianco e nero per il passato, il colore per gli anni dell’impegno politico e nei vertici della Federcalcio. E una doppia copertina, disegnata come fosse un lp in vinile, che è tutta un programma: c’è un Gianni giovanissimo, ai tempi dell’Alessandria, che gioca il pallone di tacco; e il Gianni di oggi - a suo modo sempre giovanissimo - che ripete lo stesso gesto tecnico, ma in giacca e cravatta.
LE ORIGINI. E’ una storia che affonda le radici nella cultura contadina, «anche se i miei sono venuti in città, ad Alessandria, subito dopo la mia nascita. Mi hanno insegnato tanto: non mi sono mai lamentato anche quando avevamo poco, ed eravamo felici. E la passione per il calcio me l’ha trasmessa mio padre: a lui suo padre lo preferiva nella vigna piuttosto che in campo, e allora...». E’ a casa che Gianni impara «il rispetto delle gerarchie, capivo quando i più grandi in squadra mi davano spazio e allora potevo dire la mia», e a dire sempre le cose come stanno: «Mi scontravo con i giornalisti non per le questioni calcistiche, perché ero già autocritico io quando giocavo male, ma per certi interventi nella mia vita privata».
Quella linearità portata in politica - «La riforma vera non è la legge elettorale, ma mettere da parte gli interessi di partito. Se per ottenere una cosa a cui si ha diritto bisogna farsi raccomandare, è un brutto segno» - e nell’impegno in Figc, oggi come presidente del settore tecnico e ieri come come numero uno del settore giovanile e scolastico. «Credo nella formazione dei ragazzi - spiega Rivera - e vedo che oggi manca la tecnica: se non ce l’hai da piccolo, non riuscirai a impararla dopo. Alle società serve la cultura di migliorare i giovani invece che pensare ai risultati».
GLI AMICI. In sala, ad ascoltarlo, ci sono Carlo Tavecchio, presidente della Figc, e il dg Michele Uva. Al suo fianco, da perfetto padrone di casa, c’è Giovanni Malagò, presidente del Coni. Che intreccia ricordi personali - «Mio padre, che era dirigente della Roma, mi disse dopo una partita ad Alessandria: “ho provato a fare di tutto per portare questo ragazzo a Roma”» - a una lettura politica e un auspicio per il futuro. «Uno studente mi chiese del perché non ci fossero sportivi famosi a capo della Figc o del Coni in Italia, e faceva gli esempi di Platini e Beckenbauer. Mi fa riflettere come dei totem oggi siano al centro di critiche molto forti (Platini, ndr), mentre non ci rendiamo conto di alcuni percorsi di vita: Gianni ha avuto un percorso netto. E a chi sarà a capo dello sport e del calcio nel 2024 dico: Gianni Rivera deve essere uno dei fuoriquota nella Nazionale olimpica. Lui c’era a Roma 1960, arrivò quarto...».
C’è Picchio De Sisti, che ricorda il Rivera “mediatico”, «il suo spirito critico era linfa per i giornalisti, ma ricordo anche discussioni tecniche, come quella con Picchi, sostenitore del libero staccato, e Gianni, che invece voleva un giocatore davanti alla difesa». C’è Angelo Sormani, e per lui Gianni è ancora quel ragazzo «che è dovuto diventare uomo molto presto, e le sue parole servivano per grandi titoli». Ci sono Mario Segni e Giuliano Amato, compagni d’avventura in politica. Amato, che nominò Rivera sottosegretario alla difesa, al mondo del calcio dà un chiaro segnale: «La politica lo ha buttato via e ha perso un’occasione, spero che lo sport non faccia altrettanto».
Rivera ascolta divertito, a tratti commosso. Tra Federcalcio e Mecs (Etica nello Sport), ha ancora tante pagine da aggiungere alla sua biografia. Molti ne scrivono, di libri. Ma chi può metterci su, come prezioso fermacarte, un Pallone d’Oro?