Corriere dello Sport Stadio (Firenze)

BERGOMI «Il Mondiale e la mia vita nerazzurra»

Una carriera speciale: a 16 anni marcava Bettega e a 18 conquistav­a il Mondiale Ricordi e brividi di un difensore da record «Diventai interista dopo che il Milan mi aveva scartato Il ct mi parlava di calcio e di vita. Che ingiustizi­a con la Juve...»

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Bergomi ha avuto il turbo per tutta la vita. A sedici anni marcava Bettega, di tredici anni più grande. A diciassett­e ha esordito in serie A. A diciotto ha vinto il campionato mondiale giocando la finale. Poi vent’anni con la stessa maglia, quella nerazzurra. E ora è uno dei più competenti e affidabili commentato­ri di calcio.

Con Bearzot parlavi di pallone e di altro Trap il più importante Mancini è da scudetto Romagnoli e Rugani i difensori del futuro

L’AMAREZZA «Grande maestro: vincemmo tanto Fantastico anche Bagnoli. Discussi solo con Hodgson»

Bergomi ha avuto il turbo per tutta la vita. A sedici anni marcava Bettega, di tredici anni più grande. A diciassett­e ha esordito in serie A. A diciotto ha vinto il campionato mondiale giocando la finale. Poi vent’anni con la stessa maglia, quella nerazzurra. E ora è uno dei più competenti e affidabili commentato­ri di calcio. Da ragazzino aveva i baffi e questo, insieme al modo in cui giocava, lo obbligava a portare in ogni partita i documenti per dimostrare che era davvero così giovane come era. E’sempre stato un giocatore serio, responsabi­le. E molto riservato. Fu dunque un colpo di genio di Fabio Caressa, ormai quasi quindici anni fa, intuire che quel difensore silenzioso potesse diventare loquace e soprattutt­o così competente, diretto, caldo. Come deve essere chi racconta ogni cosa, non solo la magnifica arte del football.

«Abitavo a Settala, un paesino di settemila anime nella pianura padana. Settemila anime e un pallone che non stava mai fermo, il mio. Giocavo ovunque. Giocavo per strada, giocavo all’oratorio. La prima porta nella quale ho segnato era una cabina dell’Enel. Allora di macchine ne passava una ogni ora e la piazza e la strada erano il nostro regno. All’oratorio non potevamo giocare tutti i giorni, il parroco non sempre apriva. Allora noi scavalcava­mo e facevamo le porte con le reti dell’imballaggi­o. Io, lei non ci crederà, nasco milanista. E per tutta la vita ho portato la maglia nerazzurra. Le combinazio­ni della nostra avventura umana».

Mi parla dei suoi genitori? «Mio padre aveva una pompa di benzina, con annesso lavaggio auto e noleggio. Mia madre aiutava papà. Noi abitavamo sopra al distributo­re e mamma, quando suo marito usciva per il noleggio, si metteva in finestra con il suo lavoro di cucito a macchina e se arrivava un’automobile lei scendeva. A mio padre interessav­ano più i motori del pallone, più la Ferrari che l’Inter o il Milan. Venne due o tre volte a vedermi ma si chiedeva sempre in che ruolo giocassi, vedeva che segnavo gol ma giocavo dietro…».

Come cominciò la sua carriera?

«A Settala giocavo con quelli più grandi di me. Non avevo ancora 12 anni ma me la cavavo molto bene. Mi volle vedere il Milan. Mi fecero un provino e mi presero. Per due mesi giocai con loro. Poi mi fecero le visite mediche e trovarono reumatismi nel sangue. E decisero di scartarmi. Fu una delusione ma non una tragedia, ero piccolo… Tornai a Settala. Mi mettevano in difesa ma in un campionato feci 25 gol, di qui lo stupore di mio padre, che pure non era Gianni Brera».

Quando andò all’Inter?

«Restai a Settala due anni. In verità mi volevano la Juventus, il Fanfulla e altre squadre. Ma scelsi l’Inter. Mi impuntai io, ero un bambino di tredici anni. Mi aveva fatto una buona impression­e l’ambiente e poi era vicino casa. Ci sono restato vent’anni».

E lì definirono finalmente il suo vero ruolo... «Le prime due partite del torneo dei giovanissi­mi nazionali le giocai da terzino. Poi Arcadio Venturi mi disse “Fai tutto bene, ma devi imparare a marcare”. E mi mise a fare lo stopper. Ero un po’ anarchico. Oggi, nel

«Nel torneo ‘97-98 successero molte cose strane. La gara con la Juve rimane una ferita aperta»

calcio moderno, giocherei esterno basso a destra. Mi piaceva avere un ruolo attivo nell’azione offensiva. Insomma, me la cavavo, tecnicamen­te. Ogni anno scalai una categoria e così mi ritrovai, quasi bambino, in prima squadra».

Sì, lei esordì non solo con i calzoncini corti ma quasi con i pantaloni corti da scuola media… «Avevo sedici anni, l’età di Donnarumma. Giocai contro la Juventus, in Coppa Italia, finì 0-0. Poi arrivò il giorno dell’esordio vero, in campionato. Era il 22 Febbraio del 1981. Io ricordo tutte le date, in forma quasi maniacale. Ero andato al ristorante del settore giovanile e aspettavo il pullman con gli altri. L’allenatore mi disse che invece dovevo andare un po’ più in là, dove c’era quello che portava ad Appiano Gentile, perché i “grandi “mi aspettavan­o. Poi fu un insieme di coincidenz­e. La notte venne un attacco di appendicit­e a Canuti. In campo Oriali si ruppe in un contrasto con un giocatore del Como. Bersellini, il mister, guardò la panchina. Eravamo tre difensori: Pancheri, Tempestill­i ed io. Fece scaldare Pancheri. Poi mi guardò e mi disse “Scaldati anche tu, ragazzo”. E poi disse ancora “Entra, ragazzo”. Entrai. Avevo diciassett­e anni e due mesi. Sono uscito da quel campo e da quella maglia che ne avevo trentasei».

Poco più di un anno dopo lei diventa campione del mondo. Un caso quasi unico al mondo. Solo Pelè era più giovane di lei. «Sempre per le date, io faccio il mio esordio in nazionale il 14 Aprile del 1982. Avevo diciotto anni e mezzo. La partita è a Lipsia. Una città che ricorre, nella mia vita, con ricordi e sentimenti di segno opposto. Ero lì con la nazionale giovanile quando mi avvertiron­o della morte di mio padre. E proprio lì, nella città di Wagner, qualche mese dopo inizia la mia meraviglio­sa avventure azzurra».

Anche lei, come tutti i suoi colleghi di quel tempo, ha un magnifico ricordo di Enzo Bearzot? «Sì, ho letto i giudizi degli altri e li condivido. Lui mi convocava sempre, anche quando non giocavo. Era un allenatore fantastico e una persona speciale. Mi insegnava molto. Mi ricordo che una volta, in una partita con l’Ascoli, esultai in modo esagerato. Lui mi telefonò per dirmi che avevo sbagliato, che gli avversari si rispettano sempre. Era uomo di principi e di valori. Conosceva umanità e fermezza. Si sedeva vicino a te in pullman e parlava tanto, di calcio e di vita».

Credo che il vostro legame con il c.t. sia stata una delle ragioni della vittoria del titolo mondiale. «Era un gruppo molto affiatato, molto compatto. Io ci ero entrato in punta di piedi. Ero il più giovane e inesperto. Tra Zoff e me c’erano quasi ventuno anni di differenza, avrebbe potuto essere mio padre, non il mio capitano. Noi eravamo molto convinti dei nostri mezzi. Certo, dopo le prime partite eravamo sotto pressione. Ma sentivamo di essere forti. Poi ci furono le polemiche vio-

L’INFANZIA «Abitavo a Settala: giocavo all’oratorio e per strada. A volte la porta era una cabina dell’Enel»

I GENITORI «Gestivano una pompa di benzina La nostra casa si trovava sopra al distributo­re»

IL MILAN «Mi prese quando avevo quasi 12 anni ma dopo due mesi mi mandò via: fu una delusione»

L’INTER «Mi aveva scoperto nel Settala, in verità mi voleva anche la Juve, ma io scelsi subito i nerazzurri»

BEARZOT «Uomo di principi e di valori. Aveva umanità e fermezza Chiedeva rispetto per gli avversari»

IL MONDIALE 1982 «In finale controllai Rummenigge, però non mi emozionai Solo all’ultimo mi ritrovai titolare» IULIANO E RONALDO «Allo juventino era concesso tutto, ma ormai è storia Quanti cartellini invece per l’Inter»

TRAPATTONI

lente dei giornalist­i contro Bearzot e le balle inventate su di noi. Ci riunimmo e decidemmo il silenzio stampa. Tutti insieme, tutti per Bearzot».

Quando seppe che avrebbe giocato la finale? «La riserva dei difensori era Vierchowod. Prima di partire per la Spagna ebbe un infortunio, poi una ricaduta. Insomma, con il Brasile si fa male al 34’ Collovati e io entro in campo per marcare Serginho. Che non era un fenomeno con i piedi ma era un gigante. Aveva due braccia come le mie due gambe. Alla fine del match marco Socrates, di cui conservo la maglia che ci siamo scambiati a fine partita. Dopo quella vittoria vedevamo la finale. C’era da affrontare la Polonia, prima. Bearzot mi avvicinò e mi disse che non avrei giocato perché i polacchi avevano uno schema con una sola punta. Poco dopo arrivò Zoff che mi chiese di tirare io i rinvii dal fondo perché lui non voleva sforzare un muscolo. Io gli dissi che non avrei giocato e lui mi guardò perplesso. Poi giocai. Credo che con Bearzot giocatori come Scirea, Zoff, Tardelli si confrontas­sero molto e che, giustament­e, il c.t. tenesse conto anche del loro parere».

E arriviamo alla finale del ragazzo con i baffi. «Durante uno degli ultimi allenament­i Tardelli mi si avvicina e mi dice che Bearzot aveva deciso che avrei giocato e marcato Rummenigge. Io sento un tuffo al cuore. Poi però il c.t. mi precisò che solo se Antognoni non ce l’avesse fatta avrei giocato io. Quella domenica, al mattino, Giancarlo prova ma non ce la fa. Per cui io vado

a pranzo e poi al riposo convinto di essere in campo. Quando scendo Bearzot mi dice che Antognoni voleva fare un ultimo tentativo. “Non c’è problema, mister, è giusto così”, dissi io. Insomma io ho avuto la certezza della maglia da titolare solo alle 17. E così non ho fatto in tempo a emozionarm­i».

Come visse quella partita?

«Dopo un quarto d’ora mi faccio male a una caviglia. Tra il primo e il secondo tempo mi si era gonfiata come un melone. Mi faccio fare una fasciatura molto stretta e una puntura di antidolori­fico. Bearzot mi chiese cosa pensavo di fare, se volevo uscire. Io avrei finito quella partita anche con le stampelle. In quello stesso momento Zoff consolava Cabrini per il rigore ma sentivamo che ce l’avremmo fatta. Quando Tardelli realizza quel gol meraviglio­so la palla gli arriva da una manovra in cui Scirea e io siamo nell’area piccola della Germania. Fu una grande soddisfazi­one per Bearzot che prediligev­a i difensori che attaccavan­o e i terzini duttili. Poi l’arbitro fischiò la fine. E io pensai a mio padre. Come facevo sempre, in tutte le partite della nazionale, mentre suonava l’inno. Glielo confesso senza timidezza, io ho sempre provato grande emozione per la maglia azzurra».

Si ricorda qualche conflitto nello spogliatoi­o? «In nazionale no. C’è un clima particolar­e e i giocatori sentono più responsabi­lità. Nei club è più facile. Ricordo una rissa tra Passarella e Altobelli perché Spillo aveva tirato

«Giocare a Napoli la semifinale contro Maradona non fu un vantaggio: a Roma avremmo vinto»

un rigore togliendo la possibilit­à di farlo a Daniel che era il rigorista primo. Ce ne fu un’altra tra Orrico e Klinsmann e intervenne Zenga per dividerli. Anche durante gli allenament­i, magari per una entrata eccessiva. Ma può succedere. Io discussi solo con Roy Hodgson. Tutti gli altri mi facevano giocare, lui no. Avemmo un chiariment­o e dopo si instaurò un ottimo rapporto».

Quali sono stati gli allenatori più importanti per la sua carriera? «Certamente il Trap. E’ stato un grande tecnico e un grande maestro di calcio. Io ricordo che a Matthaeus chiedeva di fermarsi dopo l’allenament­o per migliorare il sinistro. Con lui vincemmo molto. Con Orrico le cose erano più complicate. Zenga, Ferri e io venivamo incolpati dalla stampa perché non capaci di passare alla filosofia della zona. Poi arrivò Bagnoli, persona davvero fantastica. Io volevo andare via. Mi avevano cercato Roma, Lazio e Bayern. Lo dissi al mister che mi rispose, nel nostro dialetto, “Per me tu sei il più forte che c’è”. Restai e fui felice di farlo. Era umanamente molto ricco e tecnicamen­te e tatticamen­te all’avanguardi­a. Lui faceva il 3-5-2 nel 1993. Usava la lavagna magnetica quando per molti era un stregoneri­a. Un difetto? Lui aveva, come nel Verona, i suoi undici. Quando il gruppo si allargò lui ebbe difficoltà a gestirlo. Ma è stato un grande allenatore e una grande persona».

Ho sentito che lei, persona equilibrat­a, non ha ancora digerito la vicenda del rigore su Ronaldo in Juve-Inter del 1998. «Guardi, in quel campionato successero molte cose strane. E quella di Ronaldo è ancora, per noi, una ferita aperta. Lungo tutto il torneo ci fu una gestione dei cartellini micidiale per noi. A noi fischiavan­o tutto. A Iuliano, che si aggrappava all’avversario come pochi, veniva concesso tutto. Ma ormai è storia».

Lei poi ha giocato altri tre mondiali. Fino a quello di Francia del ‘98 a cui arriva trentacinq­uenne. Solo Sacchi non la convocò, nel 1994. Perché? «Ne abbiamo parlato, recentemen­te, con il mister. Mi ha detto che io avrei potuto essere il suo giocatore ideale, per tecnica e per carattere. Ma non avevo mai praticato la sua filosofia calcistica e lui non aveva più il tempo per spiegare i movimenti tattici. Mi è dispiaciut­o molto. Lavorare con Sacchi sarebbe stato interessan­te».

Quale delle nazionali in cui ha giocato, dopo il 1982, era più forte? «Non ho dubbi, quella del 1990. Quel mondiale era nostro. Io lo so che gli amici di Napoli si dispiaccio­no ma io le posso dire che se quella maledetta semifinale con l’Argentina l’avessimo giocata a Roma noi avremmo vinto. Gran parte dei giocatori della nazionale, in quel momento, provenivan­o da Milan e Inter. E poi , dall’altra parte, c’era Maradona. Il giocatore più amato nella storia di Napoli. Quando entrammo per il riscaldame­nto c’erano sì applausi, ma non il calore al quale eravamo stati abituati all’O- limpico. Poi ci fu quel maledetto gol di Caniggia. Forse io potevo pressare meglio su Maradona che crossò, forse Ferri ha sentito Zenga che chiamava la palla, forse Walter non ha trovato il tempo giusto per l’uscita. Forse… Il calcio è così e per questo è bellissimo».

Qual è l’avversario più difficile che ha incontrato? E il più “rognoso”? «Il più difficile certamente Van Basten. Vede, quando marcavi Maradona sapevi che almeno di testa, per ragioni di statura, potevi essere avvantaggi­ato. Con Van Basten no. Era più forte in tutto. Il più rognoso è stato Joe Jordan del Milan. Entrò dalla panchina durante un derby e al primo contrasto mi mollò un colpo proibito che mi fece saltare due denti. Per un po’ gli assomiglia­i, sdentato come era lui. Anche Bettega in campo non era Sant’Antonio da Padova. E persino il mio amico Serena alzava spesso il gomito, calcistica­mente parlando».

Chi è oggi il difensore giovane più interessan­te? «A me piacciono enormement­e i due centrali dell’Under 21, Romagnoli e Rugani. Il primo è forte a fermare e poi impostare. Il secondo ha una formidabil­e concentraz­ione, è un ragazzo molto maturo».

La squadra la cui maglia lei ha impressa addosso può vincere lo scudetto? «L’Inter quest’anno è forte e il clima che si sta creando è quello giusto. Il mio amico Vialli dice che c’è il “believing”, che tutto l’ambiente ci crede. Lo si vede dalle presenze allo stadio. E poi ha un allenatore capace. La squadra è molto fisica, non prende gol, comincia a farne. L’avversario sarà la Juventus, come sempre».

Com’è il mestiere del commentato­re di calcio? Ormai lei e Fabio Caressa siete una coppia di fatto, un duo come Jack Lemmon e Walter Matthau. L’urlo “Prepara le valige, Beppe, andiamo a Berlino” resterà nella storia e nella memoria di tutti malati di calcio... «Ormai è il mio lavoro. Ho rinunciato anche, almeno per ora, a fare l’allenatore. E’ un ruolo in cui ti devi preparare, non devi mai essere banale, non devi ripetere quello che il telecronis­ta ha appena detto. Più c’è affiatamen­to ed empatia con il tuo partner e meglio va. Con Fabio non c’è più bisogno di dirsi nulla. Basta uno sguardo».

La sua formazione ideale?

«La schiererei con il 4-3-1-2. Zoff; Brehme, Baresi, Maldini, Roberto Carlos; Tardelli, Matthaeus, Platini; Maradona; Ronaldo il fenomeno e Van Basten. Allenatore Trapattoni».

Cosa vuol dire, nella carriera di un giocatore, restare sempre con la stessa maglia? «In effetti siamo in pochi ad averlo fatto. La mia è stata una scelta. A quella squadra, a quella maglia ho dato tutto me stesso. Forse mi faccio un solo rimprovero. A fine carriera avrei dovuto rinviare un po’ l’addio al calcio. Mi volevano al Coventry, dovevo finire lì. Mi sarebbe stato utile conoscere un altro mondo. Ma va bene così. Ho fatto quello che volevo da bambino, quando vincevo contro la cabina Enel. Mi sono divertito vivendo con il gioco più bello del mondo. L’ho praticato con la passione e l’emozione che ha un bambino che per la prima volta indossa una maglietta pulita o scende su un prato verde. Va bene così».

«Ha costruito una squadra fisica che prende pochi gol e inizia a farne I tifosi ci credono»

I NUOVI DIFENSORI «I migliori sono Romagnoli e Rugani Il primo marca e imposta, l’altro dimostra maturità»

VAN BASTEN «Lui l’attaccante più pericoloso. Il più rognoso invece è stato Jordan, che mi ruppe due denti» «Scudetto? L’Inter è forte e compatta ma attenti alla Juve»

 ??  ?? Giuseppe Bergomi festeggerà 52 anni martedì 22 dicembre. E’ nato a Milano nel 1963 Ha giocato nell’Inter dal 1979 al 1999: 519 presenze e 23 gol in campionato. Ha vinto con la maglia nerazzurra due scudetti, una Coppa Italia, una Supercoppa italiana e...
Giuseppe Bergomi festeggerà 52 anni martedì 22 dicembre. E’ nato a Milano nel 1963 Ha giocato nell’Inter dal 1979 al 1999: 519 presenze e 23 gol in campionato. Ha vinto con la maglia nerazzurra due scudetti, una Coppa Italia, una Supercoppa italiana e...
 ?? ANSA ?? 11 luglio 1982: Giuseppe Bergomi e Antonio Cabrini con la Coppa del Mondo
ANSA 11 luglio 1982: Giuseppe Bergomi e Antonio Cabrini con la Coppa del Mondo
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 ??  ?? E’ il 1989: festa-scudetto per l’Inter di Trap
E’ il 1989: festa-scudetto per l’Inter di Trap
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Enzo Bearzot, ct campione del mondo nel 1982
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Giuseppe Bergomi martedì fa 52 anni
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Ecco l’ex difensore nerazzurro in compagnia di Ronaldo, che arrivò all’Inter nel 1997 dal Barcellona
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LAPRESSE Mauro Icardi, 22 anni, 13 gare e 6 gol in questo campionato

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