Corriere dello Sport Stadio (Firenze)
Da Praga all’Italia un’idea oltre il calcio
ROMA - In quel mondo bisognerebbe entrarci: partendo da Praga, dall’insopportabile rumore dei cingolati, dal vento freddo d’una Primavera vissuta (e poi per oltre vent’anni) lontano dal padre e dalla madre. Bisognerebbe “vestirsi” da diciottenne, scegliere di rompere con la Patria, sfuggire al dominio d’un nemico che ti ha invaso l’anima, però restare te stesso, ma mica con il tuo “integralismo” semmai con il desiderio di libertà, con la tua identità e una pace interiore che puoi avvertire soltanto se sei d’accordo con la propria coscienza, con ciò che essa ti suggerisce. Forse si sfiorerebbe lontanamente l’umanità di un uomo che s’è fatto da sé, lasciandosi incomprensibile per chi non vuole leggere oltre l’apparenza d’una ruvidità, d’una freddezza, che invece scompare e diviene leggerezza, ironia.
Zeman non è (semplicemente) un’idea di calcio ma è qualcosa che ammanta l’uomo, lo libera dalla fustigazione del destino, lo spinge a credere ci sia una giustizia e che sia figlia della meritocrazia, che divenga gratificazione attraverso la sublimazione. Per questo l’hanno scelto, e se è andata male non l’hanno mai rinnegato: perché concede una possibilità di crederci. Zeman è, sembra lo sia, non il paradosso, né l’esasperazione estrema d’un concetto, ma il senso pieno dell’etica e dell’estetica, una ricerca che nasce forse in fondo a se stesso, sarà una forma di ribellione o forse il senso d’una indipendenza intellettuale ch’è - che vuole essere - un inno alla felicità. Zeman è uomo che unisce, eppure pensano che divida: ma resta, nell’immaginario collettivo, conteso sia dai laziali che dai romanisti e, ad esempio, Napoli è un’altra enclave nella quale ha attecchito la sua filosofia e la sua cultura. Zeman è un calcio vagamente robinhoddiano, prendere ai ricchi per concedere - almeno attraverso lo spettacolo - ai “poveri”. Zeman è un macrocosmo che ti aggroviglia, tagli e diagonali e sovrapposizioni, senza indietreggiare mai.