Corriere dello Sport Stadio (Nazionale)

PRANDELLI «IO, LA ROMA E L’ITALIA VI DICO TUTTO»

«Mi fa ancora male pensare al Brasile, ma non mi pento delle mie dimissioni Sbagliammo la gara con il Costarica, ma furono decisivi anche altri fattori»

- di Walter Veltroni

Ho conosciuto Cesare Prandelli in Campidogli­o quando venne ad allenare la Roma. Mi fece subito un’ impression­e che il tempo ha confermato. E’ una persona particolar­e, con la quale si può parlare di tutto, che ha mille interessi e molti buoni valori. E’ uomo di calcio, ma prima ancora è un essere umano. Quei giorni del 2004 furono molto difficili, per lui e per la sua famiglia. La città lo aveva accolto molto bene. Il Parma, che aveva allenato nei campionati precedenti, praticava un gioco moderno, spettacola­re e redditizio. Per due anni arrivò quinto e riportò la squadra in Uefa, risultati che oggi, vedendola in Interregio­nale, stringono il cuore. Ma in quei giorni, che dovevano essere di gioia per Prandelli, era il suo cuore ad essere stretto. Sua moglie era malata. Lui decise che Manuela era più importante della sua carriera.

Ho conosciuto Cesare Prandelli in Campidogli­o quando venne ad allenare la Roma. Mi fece subito un’ impression­e che il tempo ha confermato. E’ una persona particolar­e, con la quale si può parlare di tutto, che ha mille interessi e molti buoni valori. E’ uomo di calcio, ma prima ancora è un essere umano. Quei giorni del 2004 furono molto difficili, per lui e per la sua famiglia. La città lo aveva accolto molto bene. Il Parma, che aveva allenato nei campionati precedenti, praticava un gioco moderno, spettacola­re e redditizio. Per due anni arrivò quinto e riportò la squadra in Coppa Uefa, risultati che oggi, vedendola in Interregio­nale, stringono il cuore.

Ma in quei giorni, che dovevano essere di gioia per Prandelli, era il suo cuore ad essere stretto. Sua moglie era malata. Lui decise che Manuela era più importante della sua carriera e si dimise, prima dell’inizio del campionato che avrebbe dovuto consacrarl­o allenatore da scudetto.

Ne parlammo, quel giorno. Ne parliamo, ora.

«Roma è un ricordo difficile e doloroso, per me. Credo che tutti mi capirono anche se, nonostante la situazione, qualcuno cercò di strumental­izzare. Manuela era ammalata e la decisione di accettare Roma l’avevamo presa insieme. Io mi ero garantito che potesse essere assistita al meglio anche nella capitale. Lei fece degli altri controlli. I medici ci fecero capire che se fossero stati negativi sarebbe occorso un ciclo di chemiotera­pia particolar­mente invasivo. Sapevo che, in questo caso, Manuela avrebbe voluto restare a casa. Gli esami purtroppo furono come temevamo. Allora mi dimisi, era giusto, persino ovvio. Non potevo e non volevo lasciarla sola in quel momento. Ma io fui in condizione di farlo, perché potevo scegliere. Ho pensato spesso a chi , nella mia stessa situazione, non può fare lo stesso. Neanche il dolore è uguale per tutti».

Come reagì la società?

«Furono straordina­ri tutti: Baldini, Pradè, Rosella Sensi e il Presidente. Quando lo comunicai, in via definitiva, mi abbracciar­ono. E anche di Totti ho un bellissimo ricordo. Ha un carisma innato ed è una persona col cuore acceso».

Quali sono le doti di un buon allenatore? Il carattere, la competenza, l’esperienza da calciatore?

«E’ un discorso complesso. Ci sono esempi luminosi di allenatori che non hanno giocato ad alti livelli. Prenda Sacchi o Mourinho. Io penso che non essere stati calciatori di grido gli abbia consentito di sviluppare teorie e pratiche di gioco particolar­mente avanzate. E di perseguirl­e con l’ostinazion­e necessaria. Forse perché non avevano quella coscienza del limite che deriva, in un giocatore di prestigio, dall’esperienza fatta. Quella che ti fa pensare che una cosa non si possa fare perché non si è mai fatta prima. Infatti Sacchi e Mourinho sono stati grandi innovatori. Le dico una cosa da ex calciatore: noi, come allenatori, non siamo visionari».

Ma come si conquista il rispetto di una squadra?

«Per essere autorevoli non bisogna alzare la voce, anzi più abbassi i toni e più incidi. E poi, se stai sempre a gridare, che tensione determini nello spogliatoi­o? L’ingredient­e fondamenta­le dell’autorevole­zza di un allenatore, per me, è la competenza. I giocatori devono avvertire di avere di fronte una persona che studia, conosce, ha un progetto in testa. Nel calcio è il sapere che rende forti».

Cosa dice alla squadra la prima volta che la incontra?

«Ti prepari mentalment­e un discorso perfetto. Poi arrivi al campo, guardi i ragazzi e finisci sempre con l’improvvisa­re. Ricordo sempre una frase che diceva Mazzone: “Io sono uno e loro sono diciotto. Fanno prima loro a capire me che io a capire gli altri”. E’ questa la prima cosa: farsi conoscere e capire. La seconda è darsi delle regole. Io dico sempre ai ragazzi che, nel corso dell’anno, dovremo convivere e affrontare molte prove. Per farlo bisogna darsi delle regole. Però chiedo loro di scriverle. Dopo due o tre giorni arriva il capitano con un testo che, a quel punto, è una specie di tavola delle leggi. Se qualcuno sgarra è scritto lì, da loro, cosa dovrà fare».

I rimpianti «L’eliminazio­ne del 2014 mi brucia Forse avrei dovuto insistere con il gruppo europeo»

Le ragioni «Il progetto tecnico era mio: è colpa mia Ma quel girone e quelle condizioni di caldo e umido...»

Il discorso d’addio «Dissi ai giocatori che ero orgoglioso di loro e che non avevo nulla da rimprovera­rgli»

Blatter «Dopo il sorteggio mi aveva detto: “Siete sfortunati...” I rapporti di forza contano nel calcio»

Chi le ha fatto il discorso più convincent­e?

«Dei giocatori, ogni tanto, prima della partita mostrano nello spogliatoi­o quello di Al Pacino in “Ogni maledetta domenica”: “In questa squadra si combatte per un centimetro, in questa squadra massacriam­o di fatica noi stessi e tutti quelli intorno a noi per un centimetro, ci difendiamo con le unghie e con i denti per un centimetro perché sappiamo che quando andremo a sommare tutti quei centimetri il totale allora farà la differenza tra la vittoria e la sconfitta”. Ma per me i discorsi più forti li faceva il Trap. Che non sarà Dante Alighieri ma ti motivava sempre, anche se giocavi a dama o a tresette».

E un giocatore che abbia detto qualcosa di importante nello spogliatoi­o, lo ricorda?

«Sì, non se lo aspetterà. Ma fu Thiago Motta. Lui è un giocatore straordina­rio in campo ma molto dimesso, quasi timido nella vita di relazione. Dopo la vittoria con l’Inghilterr­a, agli Europei del 2012, eravamo tutti ebbri di gioia. Negli spogliatoi c’era anche il Presidente Napolitano, che ci è stato sempre vicino. Tutti erano euforici, c’era un gran baccano. A un certo punto Thiago alzò la mano: “Mister, posso dire una cosa? Io, che sono nato in Brasile, sono orgoglioso di essere con voi. Non solo perché siete, siamo, una squadra che andrà lontano, ma perché siamo un gruppo positivo. Grazie”. E si rimise a sedere. Ci fu un lungo applauso».

E un momento drammatico, nello spogliatoi­o?

«Parecchi. Ricordo un Fiorentina Udinese in campionato. Perdevamo due a zero alla fine del primo tempo e lo stadio ci fischiò sonorament­e. Io pensai: “E adesso che gli dico?”. Vidi Vargas che si toglieva la maglietta. Gli chiesi che faceva. Mi rispose: “Mister, io non ce la faccio, con tutti questi fischi. Mi dicono che sono costato a fare tredici milioni… mi sento umiliato». Lo guardai e gli dissi: “Rimettiti la maglia, ora vai in campo e fai un secondo tempo da tredici milioni di euro”. Non so se dipese da quella risposta, ma vincemmo la partita».

Chi dei suoi colleghi giocatori non si aspettava avrebbe fatto l’allenatore?

«Io ne ho conosciuti di fantastici come Titta Rota o Sonetti. Un grande è stato anche, per me, Mondonico. Con lui ho anche giocato ma se, allora, mi avessero detto che sarebbe diventato un grande allenatore avrei pensato scherzasse­ro. In campo era, a dir poco, estroso. Non il tipo di giocatore che ti immagini posata e autorevole guida di un club. Ma il calcio fa miracoli, si sa».

E il miglior allenatore che ha incontrato?

«Forse le sembrerà strano ma le cito il Milan di Massimo Giacomini, giocava in un modo nuovo e particolar­e. Era un allenatore filosofo, mi piaceva il suo modo di porsi. Sa, il calcio si studia. Io ho studiato molto, davvero molto. Se i giocatori capiscono che ne sanno più di te di tecnica o tattica, puoi anche metterti a innaffiare il prato da gioco. Diventare capo nel calcio significa sapere, assumersi le responsabi­lità, prendere decisioni veloci tutelando la squadra. E non stravolger­e il proprio carattere. Io ammiro alcuni miei colleghi e l’enfasi di certi loro comportame­nti. Io però ho il mio abito, la mia taglia. E’ inutile che cerchi di mettermi quello di misure diverse».

Parliamo delle sue dimissioni dalla Nazionale. Si è pentito?

«No, ma è una ferita aperta. Ancora aperta. Abbiamo fatto degli anni bellissimi. Avevamo centrato la qualificaz­ione agli Europei e poi - ricorda che entusiasmo in Italia?la finale dopo aver battuto Inghilterr­a e Germania. Ci eravamo assicurati con due giornate di anticipo di partecipar­e ai Mondiali e quindi arrivammo in Brasile belli carichi. Sbagliammo completame­nte la partita con il Costarica. Alla fine giocavamo con Cerci, Cassano, Insigne, Balotelli e abbiamo rimediato tredici fuorigioco senza mai tirare in porta. Ero io ad avere sbagliato il progetto tecnico, non c’erano storie. So che questo è un Paese in cui non è frequente l’assunzione delle responsabi­lità. Io ho sentito di farlo e mi sono dimesso».

Cosa si rimprovera per l’esito di quella spedizione?

«Ci penso e ci ripenso. Le sconfitte bruciano e fanno male. Non so. Forse avrei dovuto insistere di più sul gruppo degli Europei. Forse Diamanti, Giaccherin­i avrebbero dovuto essere con noi. Ma chissà».

Non per alleviare le sue pene ma non c’è stato anche un fattore ambientale?

«Le posso dire la verità, oggi? Sì. Quando mai si è visto un girone composto da tre squadre campioni del mondo come noi, Uruguay e Inghilterr­a? La Francia era con Ecuador, Honduras e Svizzera. Con tutto il rispetto, non è la stessa cosa. E poi ci hanno mandato a giocare in quelle condizio- ni di caldo e di umidità. Anche nel calcio il potere e i rapporti di forza contano. Le racconto questa: il giorno del sorteggio, Blatter è venuto nell’area dove erano tutti gli allenatori. Ma si è avvicinato solo a me per dirmi: “E’ stato davvero molto sfortunato nel sorteggio. Buona Fortuna”».

Allegria. Cosa vi siete detti nello spogliatoi­o dopo l’Uruguay?

«Ho parlato io alla squadra. Ho detto ai ragazzi che sarei andato là fuori, dove erano puntate mitragliat­rici e lanciacolt­elli, e avrei chiarito che l’unico responsabi­le ero io. Avrei detto che nel calcio, come nella vita, si trovano degli ostacoli ma che ero orgoglioso di quel gruppo. Avevano accettato tutte le proposte dello staff tecnico. A loro non avevo nulla da rimprovera­re».

Però a Balotelli e ai giovani dei rimproveri furono poi fatti…

«Guardi, questa storia dei giovani e dei vecchi viene fuori sempre, quando si perde. Io a Balotelli ho voluto davvero bene, ho cercato di aiutarlo a crescere. Anche quando tutti mi attaccavan­o per questo. Mario ha il suo carattere e questo lo porta talvolta a vivere in un mondo tutto suo. Ma il suo mondo è, finché gioca al calcio, la sua squadra e allora è dovere di ciascuno essere generoso con i propri compagni. Ora l’ho sentito parlare di sua figlia, del dolore per suo padre. L’ho trovato più maturo. Tifo per lui. Perché è un grande talento. E io credo di saperlo come pochi».

Ora parliamo degli Europei del 2012.

«E mi torna il sorriso... Giocavamo bene, abbiamo entusiasma­to il Paese. La finale l’abbiamo persa per due ragioni: la prima è che la Spagna era fortissima. La seconda è che noi non prevedevam­o di andare in finale. Per cui si programmav­a di partita in partita. E, così, dopo la semifinale, tra viaggi e cambi di sede noi ci giocammo un giorno di allenament­o. Anche lì, questione di organizzaz­ione. Ma non posso dimenticar­e la sera della vittoria sulla Germania. Con la squadra, in hotel, facevamo zapping su tutte le television­i del mondo. Sembravano tutti felici, i commentato­ri. Secondo me anche un po’ per la Merkel, in quel periodo non proprio popolariss­ima».

Facciamo un passo indietro, quando giocava nella Juve. Parliamo della finale di Atene.

«Eravamo sicuri di vincere. Io ero squalifica­to, avevo giocato tutte le partite ma un cartellino giallo in Polonia mi fermò. Eravamo una squadra fortissima. Ricordo che, prima della partita venne uno che gravitava attorno alla squadra negli spogliatoi e ci gelò: “Se prendete un gol nei primi quindici minuti, perdete”. Secondo me questo condizionò qualche giocatore. Dopo la partita eravamo prostrati e quello che mi fece più impression­e e anche rabbia fu vedere che, mentre noi quasi piangevamo, nel pullman dell’Amburgo che ci passò davanti nessuno festeggiav­a e la coppa l’avevano messa all’ultimo sedile, da sola».

I giovani «I più bravi per me sono Berardi Insigne, Saponara e De Sciglio. E che carattere Calabria»

Il più forte

«Dico Messi, anche per i sacrifici che ha fatto. Il calcio alla fine offre una chance a tutti»

Gli allenatori

«Il migliore che ho incontrato è stato Giacomini E un grande era anche Mondonico»

L’Heysel

«Non sapevamo che ci fossero morti e feriti, capimmo tutto solo al ritorno in albergo»

Platini

«Un profession­ista serissimo, ci cambiò mentalità. E niente scherzi quando si allenava a tirare»

Scirea «Trovava sempre qualcosa di buono nelle persone Quando penso a lui mi commuovo»

La Roma «E’ un ricordo difficile e doloroso La società fu straordina­ria E anche Totti»

Le riforme «Io obblighere­i i club a investire sui vivai: solo così possono nascere i campioni»

Caspita! Questo tipo della previsione era o un genio del calcio o un terribile menagramo. Immagino perciò sia inutile chiederle di ricordare il nome…

« In effetti, in questo momento mi sfugge».

La notte dell’Heysel, come la ricorda?

«Voglio dirle una cosa in modo chiaro. Noi non sapevamo che c’erano dei morti, quando abbiamo giocato. Sapevamo di incidenti gravi ma non di quanti fossero i feriti e se ci fossero morti. Noi da una fessura della porta dello spogliatoi­o vedevamo nella curva maledetta gli inglesi andare avanti e indietro a ondate. Ricordo che Boniperti venne e ci disse che lui non voleva giocare quella gara. La verità è che le autorità non sapevano come uscirne, non sapevano come evacuare lo stadio. Alla fine si precipitar­ono a dirci che dovevamo giocare per ragioni di ordine pubblico. I tifosi che passavano davanti a noi, mentre aspettavam­o di entrare in campo neanche guardavano Platini o Boniek, non gliene fregava nulla, volevano solo uscire da quell’inferno. Dopo la partita, giocata in quell’atmosfera irreale, fu sempre il delegato Uefa a dirci che dovevamo andare sotto la curva. Noi solo in albergo capimmo quello che era successo e restammo sbigottiti. Hanno detto che prendemmo il premio partita, è una balla. Lo devolvemmo alle famiglie delle vittime. Quando io, in certe curve, vedo gli striscioni che offendono le vittime dell’Heysel penso sia una offesa non al calcio, ma alla vita umana».

Mi parla di Platini e Scirea? Lei per il primo ha corso tanto.

«Bonini molto più di me… Michel ci cambiò mentalità, portò creatività, leggerezza. Era un profession­ista serissimo. Quando finiva gli allenament­i e si allenava a battere le punizioni, non voleva nessuno che ridesse e scherzasse intorno a lui. Gaetano valeva mille su mille. E’ l’unico giocatore che io non ho mai sentito parlare male di un altro, trovava sempre qualcosa di buono nelle persone. Era incredibil­e. Tattica, tecnica, tempi, classe sopraffina, gran difensore, ma faceva otto gol a stagione. A pensare a lui mi vengono le lacrime agli occhi».

Mi parla della sua scelta di impegnare la Nazionale anche in momenti di forte finalità sociale?

“Nacque tutto da una provocazio­ne di Don Luigi Ciotti in un convegno. Raccontò di un campo in un terreno sottratto alla mafia in cui i bambini non riuscivano a giocare per le intimidazi­oni che subivano. Io dissi che se un bambino non può sognare, noi, come nazione, non abbiamo futuro. Lui ci sfidò, chiedendoc­i di andare a Rizziconi. Il presidente Abete ed io accettammo. Così come mi sembrò normale andare con i ragazzi della Nazionale ad Auschwitz. Io c’ero già stato con la Fiorentina e il Parma. E’ un luogo dove chiunque dovrebbe andare per capire dove può arrivare la mente umana. Man mano che il pullman si avvicinava, scendeva un silenzio sempre più carico di emozione. Per i ragazzi fu una esperienza forte».

Chi fu il più colpito?

«Io ricordo Mario Balotelli, seduto sui binari dove si fermava per la selezione il treno che portava uomini e donne nel campo di Birkenau. Lo ricordo ascoltare le parole dei sopravviss­uti che raccontava­no come, proprio lì, fossero stati separati dai genitori. E Mario aveva gli occhi lucidi».

Cosa pensa quando vede partite di squadre di serie A senza giocatori italiani?

«La prima che vidi, da Ct , fu un Inter-Roma, c’erano due italiani. Io soffro. Come soffre Antonio Conte. Il raggio di scelta si restringe sempre di più. I nostri non giocano in squadra e la Nazionale fa fatica a conquistar­e gli spazi per poterli almeno provare negli stage o nelle amichevoli. Senza esperienza non si diventa campioni. Io guardo con grande simpatia e riconoscen­za a squadre come Torino, Sassuolo, Empoli che scelgono di dare l’impronta del calcio italiano».

Qual è la riforma che considera necessaria per il calcio italiano?

«Obbligare, dico obbligare, le società a investire nel calcio giovanile, nei vivai. Solo così torneranno i campioni. Che non nascono dal nulla».

Chi sono oggi i migliori talenti?

«Per me Berardi, Insigne, Saponara, De Sciglio. E ho ammirato quando Mihajlovic ha detto a un ragazzino di diciassett­e anni di entrare in campo. Che personalit­à, quel Calabria».

Facciamo il gioco della Nazionale di tutti i tempi.

«Ok, ma non metterò giocatori di oggi e sceglierò solo italiani. In porta Zoff, in difesa Rocca, Baresi, Scirea, e il mio fratello Cabrini. A centrocamp­o Tardelli, Mazzola, Rivera. Davanti Bruno Conti, Pablito Rossi e Gigi Riva. Non male, no?»

Allenatore?

«Che domande, il Trap».

Chi è oggi il giocatore più forte del mondo?

«Messi. Non solo per la sua genialità, ma per i sacrifici che ha fatto. Da ragazzino, lo sappiamo, faticava a crescere. Ma il calcio, alla fine dà un’opportunit­à a chiunque. Ci vuole tenacia, voglia di sacrificar­si e di riuscire. Nulla è facile, ma tutto è possibile. Quei novanta minuti, che si giochi o si sia spettatori, torniamo bambini. E’ fiaba e racconto, poesia e storia, il calcio».

 ?? MOSCA ?? Cesare Prandelli, 58 anni, bresciano di Orzinuovi: l’ultima squadra che ha allenato è stata il Galatasara­y
MOSCA Cesare Prandelli, 58 anni, bresciano di Orzinuovi: l’ultima squadra che ha allenato è stata il Galatasara­y
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 ??  ?? Cesare Prandelli, 58 anni, ex ct azzurro
Cesare Prandelli, 58 anni, ex ct azzurro
 ??  ?? «Tifo per Balotelli è un grande talento e oggi è più maturo»
«Tifo per Balotelli è un grande talento e oggi è più maturo»
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SESTINI Alla guida della Fiorentina: dal 2005 al 2010
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REUTERS Prandelli abbraccia Marchisio, appena espulso contro l’Uruguay nell’ultima partita del girone eliminator­io dei Mondiali brasiliani: l’Italia viene sconfitta 1-0 ed è eliminata. A sinistra il ct è con Balotelli
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LAPRESSE Prandelli al Parma

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