Corriere dello Sport Stadio (Nazionale)
Bruno Conti «La mia vita una corsa Mondiale»
Mi scartavano perché dicevano che non avevo il fisico, poi arrivò Liedholm e fu l’inizio Nell’82 Maradona e Zico facevano paura ma noi dicemmo: proviamoci Totti? Lui è la Roma
La corsa di Conti, come quella dei grandi calciatori, si ricorda a occhi chiusi. Il vero intenditore di calcio distingue i giocatori dal modo in cui solcano il campo, non ha bisogno del supporto della telecronaca. Conti era tutto: veloce, tecnico, forte fisicamente, geniale nelle giocate, dotato di un cross perfetto. Quando cadde “come corpo morto cade” nell’area della Germania, tutti lo abbiamo amato come un fratello. Anche lui, come Losi, Totti, De Rossi, Florenzi è stato “er core de Roma”. Perché questa città, con tutti i suoi difetti, ha il cuore grande, capace di ospitare e non dimenticare chi le fa del bene.
La corsa di Conti, come quella dei grandi calciatori, si ricorda a occhi chiusi. Il vero intenditore di calcio distingue i giocatori dal modo in cui solcano il campo, non ha bisogno del supporto della telecronaca. Conti era tutto: veloce, tecnico, forte fisicamente, geniale nelle giocate, dotato di un cross perfetto. Quando cadde “come corpo morto cade” nell’area della Germania tutti lo abbiamo amato come un fratello. Anche lui, come Losi, Totti, De Rossi, Florenzi è stato “er core de Roma”. Perché questa città con tutti i suoi difetti, ha il cuore grande capace di ospitare e non dimenticare chi le fa del bene.
«Facevo il chierichetto in parrocchia, a Nettuno. C’era, nell’oratorio, un campetto di terra battuta, circondato da mura di cemento. La palla non usciva mai, sbatteva e tornava in campo. Io passavo lì molto tempo a palleggiare, fare dribbling, tirare rigori e punizioni. Ma il mio cuore era diviso tra calcio e baseball. A Nettuno gli americani sbarcati per liberarci avevano portato non solo la libertà, il boogie woogie e le sigarette ma anche il baseball, loro sport nazionale. Per generazioni si è tramandata questa passione, venuta dal mare».
Quindi abbiamo rischiato di perdere l’ala destra che tutti gli italiani ricordano?
«In effetti sì. Vennero i dirigenti di una squadra importante, il Santa Monica, e chiesero a mio padre se potevano ingaggiarmi. Io ero un buon lanciatore, mancino, come sarei stato anche con i piedi. Il mio esempio era un mito del baseball nettunense, Alfredo Lauri. Mio padre chiese qualche giorno per riflettere, non era certo un tipo impulsivo. Poi prese la sua decisione, ero troppo piccolo, non era il caso. E grazie a quel padre apprensivo o forse solo responsabile sono arrivato fino a Madrid».
Com’era la sua famiglia?
«Mio padre si alzava la mattina alle quattro e andava a lavorare, faceva il muratore. Eravamo sette figli. Dormivamo in una casa modesta ma non ci hanno mai fatto mancare nulla. Ricordo il calore rassicurante della stufetta di legno che riscaldava l’ambiente e tre dei miei fratelli che dormivano nello stesso letto. Ricordo quando mio padre tornava a casa, stanco, si lavava e ci preparava la bruschetta. Gli piaceva cucinare. Mia madre mi urlava di smettere di giocare e di andare a lavorare, che servivano i soldi a casa. Eravamo quasi una squadra di calcio, a tavola».
Suo padre la seguiva agli inizi?
«Ma come poteva, pover’uomo? C’era mio zio, che faceva il barbiere, che mi accompagnava in giro. Io mentre giocavo per il Nettuno fui visionato da quello che chiamavano “il mago del Tirreno”, Domenico Bivi. Mi caricò su una Lambretta e mi portò a Anzio. Non grande distanza, ma grande salto di qualità. Feci vari provini con squadre come il Bologna, la Sambenedettese e anche la Roma. Herrera mi vide e disse che sì, tecnicamente ero bravo, ma non avevo il fisico da calciatore. La stessa risposta si ripeteva, sempre. Fu un periodo difficile. Tra il no di papà all’America e le porte sbattute dalle squadre blasonate, mi chiesi se stavo facendo la cosa giusta».
Quando fu la svolta?
«Mio cugino aveva un bar a Lavinio e organizzava dei tornei di calcetto. Mi chiamò e io trovai Di Bartolomei, Giordano, Di Chiara. Andavano in ferie lì, erano già nelle giovanili delle loro squadre, fortissimi. Mi sembrava un sogno. Fatto sta che feci un nuovo provino, questa volta con Liedholm. E fui preso. Ero un giocatore della Roma. Per mio padre che aveva anche il cuore giallorosso, fu il momento più bello della vita».
Si ricorda l’esordio?
«Tutto, ricordo. C’erano le targhe alterne e da Nettuno partì praticamente tutta la città in treno per venire all’Olimpico. Era un Roma-Torino. Io mi procurai un rigore. Poi Domenghini sbagliò, ma, come si sa, può capitare».
Poi passò al Genoa.
«Sì , mi mandarono lì per farmi le ossa, dovevo giocare e una squadra di B era l’idea-