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a voluto una vita spericolata, l'ha voluta piena di guai. Oggi, nella pesantezza sfatta dei suoi cinquantuno anni, Walter Casagrande è una foto sulla copertina della sua autobiografia: gli occhi due bottoni neri, la faccia gonfia da rana, gli zigomi duri, solchi come ferite a segnargli il naso, una mano a coprirsi la bocca, lo spaesamento nello sguardo tipico di chi - dopo essersi perso mille volte nella vita - ha un unico tom-tom per ritrovarsi: se stesso. Il libro che, a dieci mesi dall'uscita, è ancora un best seller, si intitola: «Casagrande e seus demonios».
I demoni, dunque: Casagrande, corinthiano nella democracia di Socrates, diciannove volte nella Selecao, Ascoli e Toro a cavallo tra gli anni 80 e i 90, è stato un centravanti di manovra dal piede dolce, una punta implacabile nello stacco di testa. Nell'autobiografia racconta la sua tossicodipendenza, scimmia che l'ha accompagnato per tutta la carriera. Scrive: «Mi sono fatto di tutto. Cocaina, eroina, canne, tequila, doping: per 20 anni ho giocato alla roulette russa. Copiavo i miei miti del rock, da Jim Morrison a Janis Joplin e Jimi Hendrix». Dopo quattro overdose e svariati ricoveri in clinica, ne è uscito, così dice.
Il libro di Casagrande è esposto nelle librerie di Rio, Brasilia, Salvador de Bahia, ovunque. Spesso è piazzato accanto ad un altro best seller, la biografia di Neymar, che invece nella foto sorride del suo sorriso furbetto, da popstar ammaestrata a posare col profilo giusto. Forse non significa niente. Forse invece l'involontario accostamento delle due biografie - una di vita vissuta e l'altra di vita da favoletta raccontata alla sera prima della nanna - vuole ricordarci che esiste anche l'altro lato, quello oscuro, the dark side, il buio oltre l'area di rigore; forse vuole dirci che - tra le pieghe di una quotidianità privilegiata - al campione basta poco per sporgersi oltre la recinzione dorata in cui vive, gli basta un attimo per riconoscersi nel buio e perdersi.