LIVERANI: «IL CALCIO È PENSIERO»
Il tecnico delle due promozioni svela: «Qui ho scoperto il senso del mio lavoro» «Ho trasmesso un’idea e il mio Lecce l’ha realizzata È una delle città più belle dove io abbia lavorato»
to in provincia, ma anche in tutta Italia. In Svizzera. Sabato ne verrà inaugurato uno a Londra, il Wolves’ Den, la tana dei lupi. I salentini non dimenticano sé stessi. Quelli che rimangono, tanto meno. Gli abbonati in questa stagione hanno sfiorato quota 19.000, travolgendo un antico record. A breve verrà inaugurato un negozio dedicato al Lecce - che si è attrezzata, prima squadra in Italia, con un marchio tecnico proprio, M908, richiamandosi alla data di fondazione del club - mentre al momento c’è solo un angolo dedicato in un esercizio indipendente. Stanno anche tessendo la propria rete di scuole calcio affiliate: sono 29, e 233 i tesserati del settore giovanile. Il tutto senza indebitarsi, o appena il giusto. Forse sono davvero un sogno.
Fabio Liverani, le rientrano gli infortunati, le squadre più forti le avete incontrate quasi tutte. Lei come cambierà il Lecce? «Quasi tutte, in effetti. Ci mancano ancora Milan e Juventus e non è poco. Ma è fondamentale recuperare chi non è ancora al massimo perché finora non abbiamo realmente idea di quanto valga la squadra. Secondo me ha margini di miglioramento molto ampi».
Finora la sua idea di gioco è rimasta questo: un’idea.
«Proprio perché abbiamo lavorato con mezza squadra alla volta. A mio avviso però non esiste un calcio perfetto. Idee, qualità, gioco, abnegazione e per la salvezza si lotta. Pretendere di essere solo belli è presunzione. A questo livello tutti i giocatori devono capire le situazioni. Buttare la palla quando serve, giocarla se è opportuno. In ogni partita ci sono tutti i momenti immaginabili».
Doppio salto mortale dalla C alla A in due anni. Come fa un allenatore ad adattarsi?
«Ho riscoperto la C dopo tanto tempo. L’ho trovata cambiata anche nelle regole, con i limiti di età. La rosa era già costruita. In quei casi bisogna capire i giocatori e metterli nelle condizioni di esprimersi al massimo. Poi, a poco a poco, trasmettere qualche concetto nuovo. Ma sempre nel rispetto delle caratteristiche dei tuoi. Mai mettere in difficoltà un giocatore per amore delle proprie idee. In B abbiamo preso uomini adatti e solo a marzo abbiamo trovato un’identità, scoperto di poter puntare alla promozione. In A fisicità e tecnica sono molto superiori. Infatti tutte le neopromosse faticano».
Più difficile la prima o la seconda promozione?
«In C hai difficoltà di gestione anche a causa dei viaggi, dei campi. La B è dura, ma ci ha dato una bella mano l’ambiente di Lecce. Città tranquilla, ma in grado di esprimere una passione trascinante. L’unità d’intenti è una delle componenti che possono portarci alla salvezza».
Gli inizi non sono stati comunque facili. «C’era quasi l’isteria di uscire dalla Serie C. Comprensibile, dopo sei anni. In Serie B abbiamo trovato già un altro spirito. E i ragazzi hanno costruito con la gente un feeling che si avverte».
Che cosa le ha insegnato l’esperienza in Inghilterra con il Leyton Orient? «Poco. Ho migliorato l’inglese. Forse l’unica scelta sbagliata della mia carriera. Avevo una voglia matta di allenare e mi sono messo fretta. Gestione italiana lontana dalla mia mentalità. Ho commesso un errore: ho accettato senza prima andare a vedere».
A Lecce è venuto a vedere?
«No, ma due incontri con la proprietà sono stati sufficienti. Avevo ragione. Uno dei posti più belli in cui ho lavorato».
PassaredallaBallaAèdifficilecome per una squadra italiana disputare una coppa europea?
«Qualcosa del genere. Lì però la differenza secondo me è tattica: più ritmo, gioco più aperto. Proprio per questo i nostri allenatori, da Sarri a Conte ad Ancelotti, se vanno in club di livello vincono».
Lei non si è trovato bene, però la superiorità attuale del movimento inglese sembra evidente.
«La managerialità scava la differenza: stadi di proprietà, atteggiamento positivo a prescindere dal risultato, ambiente. Da noi il merito è venuto meno. Il settore giovanile è un passatempo, non una costruzione. Tante belle parole ma nessun passo concreto in quel settore. Chi fa bene non viene aiutato in alcun modo. E allora ciascuno pensa al proprio interesse. Abbiamo lasciato terreno agli avventurieri. A luglio parliamo di bei progetti, poi prendi un palo e salta l’allenatore».
L’esonero facile è sempre esistito. «Sì, ma chi lo decide? Non certo chi è in grado di andare al campo e giudicare come lavora il tecnico».
Vista da Lecce: sarebbe possibile un Leicester italiano?
«Cioè un piccolo club che vince il titolo? No, finché la Lega non distribuirà in parti uguali i proventi del calcio, magari con un bonus basato sulla classifica dell’anno precedente. Abbiamo tutti gli stessi doveri, dovremmo avere gli stessi diritti».
Lei ha la pelle scura e sa che cosa sta capitando negli stadi italiani. «Anche su questo tema, tante chiacchiere e poche regole. Non si ha il coraggio di colpire duro, perché non si vuole decidere chi dev’essere il primo a pagare. Ma un primo ci dev’essere. Altrimenti non se ne esce». Perché il mestiere dell’allenatore è bello?
«Perché si trasmette a ventisei teste un pensiero. E scoprire che riescono a realizzare ciò che pensi è la gioia più grande. Superare insieme le difficoltà, far crescere i ragazzi come te lo eri immaginato. L’ho visto realizzarsi lo scorso anno nel Lecce durante il campionato di Serie B, una squadra che andava da sola. Non lo dimenticherò».
«Non esiste un gioco perfetto, pretendere di essere solo belli è presunzione. Tutti devono capire la situazione. E se serve buttare via la palla»
«Un Leicester da noi? Una piccola società non può vincere il campionato finché la Lega non dividerà in parti uguali i proventi del calcio»