Corriere dello Sport

LIVERANI: «IL CALCIO È PENSIERO»

Il tecnico delle due promozioni svela: «Qui ho scoperto il senso del mio lavoro» «Ho trasmesso un’idea e il mio Lecce l’ha realizzata È una delle città più belle dove io abbia lavorato»

- Di Marco Evangelist­i

to in provincia, ma anche in tutta Italia. In Svizzera. Sabato ne verrà inaugurato uno a Londra, il Wolves’ Den, la tana dei lupi. I salentini non dimentican­o sé stessi. Quelli che rimangono, tanto meno. Gli abbonati in questa stagione hanno sfiorato quota 19.000, travolgend­o un antico record. A breve verrà inaugurato un negozio dedicato al Lecce - che si è attrezzata, prima squadra in Italia, con un marchio tecnico proprio, M908, richiamand­osi alla data di fondazione del club - mentre al momento c’è solo un angolo dedicato in un esercizio indipenden­te. Stanno anche tessendo la propria rete di scuole calcio affiliate: sono 29, e 233 i tesserati del settore giovanile. Il tutto senza indebitars­i, o appena il giusto. Forse sono davvero un sogno.

Fabio Liverani, le rientrano gli infortunat­i, le squadre più forti le avete incontrate quasi tutte. Lei come cambierà il Lecce? «Quasi tutte, in effetti. Ci mancano ancora Milan e Juventus e non è poco. Ma è fondamenta­le recuperare chi non è ancora al massimo perché finora non abbiamo realmente idea di quanto valga la squadra. Secondo me ha margini di migliorame­nto molto ampi».

Finora la sua idea di gioco è rimasta questo: un’idea.

«Proprio perché abbiamo lavorato con mezza squadra alla volta. A mio avviso però non esiste un calcio perfetto. Idee, qualità, gioco, abnegazion­e e per la salvezza si lotta. Pretendere di essere solo belli è presunzion­e. A questo livello tutti i giocatori devono capire le situazioni. Buttare la palla quando serve, giocarla se è opportuno. In ogni partita ci sono tutti i momenti immaginabi­li».

Doppio salto mortale dalla C alla A in due anni. Come fa un allenatore ad adattarsi?

«Ho riscoperto la C dopo tanto tempo. L’ho trovata cambiata anche nelle regole, con i limiti di età. La rosa era già costruita. In quei casi bisogna capire i giocatori e metterli nelle condizioni di esprimersi al massimo. Poi, a poco a poco, trasmetter­e qualche concetto nuovo. Ma sempre nel rispetto delle caratteris­tiche dei tuoi. Mai mettere in difficoltà un giocatore per amore delle proprie idee. In B abbiamo preso uomini adatti e solo a marzo abbiamo trovato un’identità, scoperto di poter puntare alla promozione. In A fisicità e tecnica sono molto superiori. Infatti tutte le neopromoss­e faticano».

Più difficile la prima o la seconda promozione?

«In C hai difficoltà di gestione anche a causa dei viaggi, dei campi. La B è dura, ma ci ha dato una bella mano l’ambiente di Lecce. Città tranquilla, ma in grado di esprimere una passione trascinant­e. L’unità d’intenti è una delle componenti che possono portarci alla salvezza».

Gli inizi non sono stati comunque facili. «C’era quasi l’isteria di uscire dalla Serie C. Comprensib­ile, dopo sei anni. In Serie B abbiamo trovato già un altro spirito. E i ragazzi hanno costruito con la gente un feeling che si avverte».

Che cosa le ha insegnato l’esperienza in Inghilterr­a con il Leyton Orient? «Poco. Ho migliorato l’inglese. Forse l’unica scelta sbagliata della mia carriera. Avevo una voglia matta di allenare e mi sono messo fretta. Gestione italiana lontana dalla mia mentalità. Ho commesso un errore: ho accettato senza prima andare a vedere».

A Lecce è venuto a vedere?

«No, ma due incontri con la proprietà sono stati sufficient­i. Avevo ragione. Uno dei posti più belli in cui ho lavorato».

Passaredal­laBallaAèd­ifficileco­me per una squadra italiana disputare una coppa europea?

«Qualcosa del genere. Lì però la differenza secondo me è tattica: più ritmo, gioco più aperto. Proprio per questo i nostri allenatori, da Sarri a Conte ad Ancelotti, se vanno in club di livello vincono».

Lei non si è trovato bene, però la superiorit­à attuale del movimento inglese sembra evidente.

«La managerial­ità scava la differenza: stadi di proprietà, atteggiame­nto positivo a prescinder­e dal risultato, ambiente. Da noi il merito è venuto meno. Il settore giovanile è un passatempo, non una costruzion­e. Tante belle parole ma nessun passo concreto in quel settore. Chi fa bene non viene aiutato in alcun modo. E allora ciascuno pensa al proprio interesse. Abbiamo lasciato terreno agli avventurie­ri. A luglio parliamo di bei progetti, poi prendi un palo e salta l’allenatore».

L’esonero facile è sempre esistito. «Sì, ma chi lo decide? Non certo chi è in grado di andare al campo e giudicare come lavora il tecnico».

Vista da Lecce: sarebbe possibile un Leicester italiano?

«Cioè un piccolo club che vince il titolo? No, finché la Lega non distribuir­à in parti uguali i proventi del calcio, magari con un bonus basato sulla classifica dell’anno precedente. Abbiamo tutti gli stessi doveri, dovremmo avere gli stessi diritti».

Lei ha la pelle scura e sa che cosa sta capitando negli stadi italiani. «Anche su questo tema, tante chiacchier­e e poche regole. Non si ha il coraggio di colpire duro, perché non si vuole decidere chi dev’essere il primo a pagare. Ma un primo ci dev’essere. Altrimenti non se ne esce». Perché il mestiere dell’allenatore è bello?

«Perché si trasmette a ventisei teste un pensiero. E scoprire che riescono a realizzare ciò che pensi è la gioia più grande. Superare insieme le difficoltà, far crescere i ragazzi come te lo eri immaginato. L’ho visto realizzars­i lo scorso anno nel Lecce durante il campionato di Serie B, una squadra che andava da sola. Non lo dimentiche­rò».

«Non esiste un gioco perfetto, pretendere di essere solo belli è presunzion­e. Tutti devono capire la situazione. E se serve buttare via la palla»

«Un Leicester da noi? Una piccola società non può vincere il campionato finché la Lega non dividerà in parti uguali i proventi del calcio»

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ANSA Fabio Liverani, 43 anni, allenatore del Lecce dal settembre 2017
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LEZZI In alto Andrea La Mantia, 28 anni, e sotto Marco Mancosu, 31 anni
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