Kolisi, il capitano è alla seconda vita
Siya Kolisi da piccolo, nel fango di Zwide, la poverissima township di Porth Elizabeth, giocava con un mattone al posto del pallone: figuriamoci se gli fanno paura Eddie Jones e l’Inghilterra. Di pesi, reali o simbolici, è abituato a portarne da sempre, e l’anno scorso è diventato il primo capitano nero degli Springboks in 128 anni di storia: figuriamoci se gli fa paura giocarsi una finale mondiale. Piuttosto un po’ di emozione - un bel po’ di emozione… - sabato la proverà pensando a “Madiba”, l’immenso Nelson Mandela, che 25 anni fa esatti dichiarò ufficialmente chiusa l’era dell’apartheid indossando il jersey numero 6 dei “Bokke” - la squadra “bianca” per eccellenza - e stringendo la mano a François Pienaar, l’allora capitano del Sudafrica che aveva appena sconfitto gli All Blacks nella più famosa delle finali mondiali, immortalata da Clint Eastwood nel film “Invictus”.
Kolisi è il terminale di una sottile linea nera partita con Errol Tobias e proseguita con Chester Williams, il “coloured” della finale del ’95, che però in quella squadra di fenomeni serviva soprattutto a lavare la coscienza. Poi sono arrivati Brian Habana, l’ala che sfidava i ghepardi, recordman di mete (15) in Coppa del Mondo, protagonista della seconda vinta dal Sudafrica, proprio contro l’Inghilterra nel 2007, l’elegantissimo JP Pietersen e Tendai Mtawarira, “The Beast”, che ancora oggi ruggisce in mischia. Chiliboy Ralepelle è stato il primo “coloured” capitano Under 21, Pieter De Villiers il primo c.t. nero. Kolisi è un’altra faccenda.
«Grazie, Rassie, per la tua scelta», disse l’altra icona nera Desmond Tutu il giorno prima di ritirarsi dalla vita pubblica, rivolgendosi al nuovo allenatore del Sudafrica, Rassie Erasmus, che aveva avuto il coraggio di una mossa certo simbolica, ma dettata dalle qualità di Kolisi. Un terza linea dinamico e carismatico, classe 1991, con alle spalle una storia che riassume quella di molti neri. I suoi genitori lo hanno concepito da teenagers, sua madre Phakama è morta quando Siya aveva quindici anni. Due suoi fratellastri, Liyema e Liphelo, hanno seguito il padre, Fezakele, scomparso giovane anche lui, e da adulto Siya ha impiegato sette anni per ritrovarli e portarli con sè a Città del Capo, dove vive assieme alla moglie Rachel e al figlio Nicholas, di tre anni.
DUE VITE. La sua infanzia è stata dura, durissima. Lo ha tirato su la nonna materna, fra le gang che si contendevano il controllo della droga e le ribellioni della township contro i governi bianchi. «E’ vero, da piccolo giocavo con un mattone, ma mi piaceva farlo - racconta oggi - Perché da giovane cercavo di godermi la vita con quello che avevo. Non sapevo neppure che fosse possibile un’esistenza diversa. Il mio sogno non era diventare un giocatore di rugby, ma solo di vivere serenamente con la mia famiglia».
A 12 anni gli osservatori federali lo hanno notato, e alla Grey Junior School di Port Elizabeth ci è arrivato con una borsa di studio, ma senza parlare una parola di inglese, solo lo xhosa, la lingua della sua gente che al rugby preferiva il calcio dei Bafana Bafana. Da lì è passato al liceo, poi a Western Province e agli Stormers, nel 2013 è approdato alla nazionale.
Il suo orizzonte ora è cambiato, prendersi il Mondiale significherebbe aggiungere un mattone - stavolta simbolico - al sogno arcobaleno di Mandela. «Il mio obiettivo una volta era procurarmi un pasto al giorno, oggi è diventare uno dei migliori giocatori del Sudafrica e del mondo. Non vedo il rugby come un lavoro, ma spero di essere un esempio per chi ha una storia simile alla mia. Soprattutto per i bambini: così non saranno costretti a guardare all’America per trovarsi un modello». Fuori e dentro le township.
Cresciuto in una township, ha perso i genitori e giocava a rugby coi mattoni
Primo leader nero dei Boks, vorrebbe «ispirare chi ha una storia come la mia»