Il calcio libero di Fabio
Era ottobre e faceva caldo a Lecce quando Fabio Liverani ci disse che il calcio è pensiero e che il fascino estatico del mestiere di allenatore sta nel momento in cui si comprende che la trasmissione di quel pensiero è avvenuta, che ventisei teste hanno accolto il messaggio e i corpi sotto di loro si muovono in armonia e di conseguenza. L’autunno è passato, l’inverno quasi non è mai venuto, a Lecce hanno ancora caldo e non smetteranno di sudare finché la salvezza non sarà in frigo. Ci vorrà tempo e sarebbe come una terza promozione consecutiva per Liverani, passato veloce con i giallorossi attraverso la sua personale Divina Commedia, dalle bolge della C in cui, racconta, regnava l’isteria, attraverso l’ordine malinconico della B quando ebbe per la prima volta la percezione di come la squadra che aveva in mente si fosse realizzata e se ne innamorò. Fino alla A, da cui dopo due giornate già discutevano se mandarlo via.
Ovviamente era prima che pareggiasse con la Juve, che bloccasse l’Inter, che battesse il Napoli, che vincesse tre partite in fila come ha appena fatto. Con questo suo calcio che somiglia un po’ agli assist di quando era giocatore, alcuni chili fa: diritti come raggi laser, improvvisi come agguati, oppure morbidi come zucchero filato. Dipendeva da chi dovesse riceverli. Perché, e anche queste sono parole sue, il calcio è pensiero ma non unico, pretendere di essere solo belli è presunzione, mai mettere in difficoltà un calciatore per amore delle proprie idee. Chi fa l’allenatore, e lui fa quello, chi fa il profeta.