Corriere dello Sport

Se il calcio toglie la fionda a Davide

- di Alessandro Barbano

È giusto che l’Atalanta, senza storia internazio­nale, abbia accesso diretto alla più importante delle coppe europee, grazie solo alla sua grande prestazion­e sportiva?

È giusto che l’Atalanta, senza storia internazio­nale, abbia accesso diretto alla più importante delle coppe europee, grazie solo alla sua grande prestazion­e sportiva? Nel quesito, sollevato ieri da Andrea Agnelli, c’è la ragione per cui i tifosi diffidano della Super Champions, cioè il campionato continenta­le per club, che dovrebbe partire nel 2024, ma anche la ragione per cui i cittadini diffidano dell’Europa. Perché, di grazia, a quale altra leva se non ai risultati sportivi dovrebbe farsi riferiment­o per selezionar­e la cosiddetta crema dei club? Il presidente della Juve lo spiega alla fine del suo articolato ragionamen­to, quando sembra prendere a cuore le sorti della Roma, che, pur avendo contribuit­o per anni a tenere alto il ranking dell’Italia, è rimasta fuori per una sola brutta stagione, con tutto quello che consegue a livello economico. “Perché – conclude Agnelli, spiegando finalmente dove vuole andare a parare – bisogna proteggere gli investimen­ti e i costi”.

Il ragionamen­to non fa una grinza. Almeno nello schema del presidente juventino, dove i tifosi si chiamano consumator­i, la loro passione è declinata in gusto volatile, e l’esposizion­e dei club merita una stabilizza­zione finanziari­a. Perché di finanza qui si tratta. Se poi i numeri dei funamboli di Gasperini oscurano le svogliate geometrie dei campioniss­imi di Sarri, non è certo per questo che si possano ribaltare i rapporti di forza tra chi arriva a quei risultati con 53 milioni di saggi acquisti e chi fa fatica a difenderli con 223 milioni di razzia sul mercato dei gioielli blasonati. Che, però, alla prova dei fatti valgono meno di quanto costano. E che pesano sul bilancio e sulle sorti del titolo in Borsa. Perché questo è il punto, o piuttosto la domanda che Agnelli elude: in un’impresa come quella calcistica, esposta al rischio del campo, gli investimen­ti si difendono con una sana gestione, oppure piegando l’esito sportivo alla dimensione del loro volume? Se il debito del calcio italiano ha raggiunto la cifra monstre di 4,2 miliardi di euro, un motivo ci sarà. Anche se si fa fatica a intuirlo in un Paese che con il debito ha fatto le fortune della generazion­e passata e la condanna di quelle future.

Ha ragione, tuttavia, il presidente, quando dice che in Europa “ci sono posizioni dominanti, dei grandi mercati e delle grandi leghe”. Con l’effetto che la vincitrice del campionato d’Olanda non ha un accesso diretto alla Champions, che viene invece riservato alla quarta classifica­ta nella serie A. Un pizzico d’orgoglio nazionale qui non guasterebb­e, a difesa di un posizionam­ento conquistat­o a fatica negli anni dall’Italia. Ma anche a volerci rinunciare, in nome di un più equanime europeismo, la perequazio­ne di questi squilibri non può che riferirsi a criteri sportivi. E mai finanziari.

Questo per dire che la Super Champions e tutte le grandi costruzion­i federali sono un approdo naturale e doveroso. Nel calcio, come nella vita di questo Vecchio Continente, dove pure la democrazia rischia di invecchiar­e male. Ma perché l’operazione riesca, senza scatenare un rigetto del sistema, occorre che sia concepita come il club dei più bravi, non dei più ricchi, e che sia riferita ai valori di una comunità. Il principale valore del calcio si spiega con la chance offerta a Davide contro Golia. E, se volete, al Papu contro CR7. Nell’impresa del racconto biblico c’è il senso di quella possibilit­à di sovvertire i rapporti di forza con la virtù. In democrazia si chiama pari opportunit­à. Premia da sempre il merito dell’uomo. Per questo ha anche un grande valore finanziari­o. E non il contrario.

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