«CON GLI SPALTI VUOTI GUAI PER I TIRATORI»
L’ex azzurro, tricolore con Varese e oggi commentatore tivvù, parla degli effetti delle porte chiuse sui giocatori Andrea Meneghin: «Non vedere nessuno sulle tribune cambierà la prospettiva a molti»
Il tunnel che dagli spogliatoi porta al campo. Il ruggito della gente quando le teste dei giocatori sbucano fuori. E' qualcosa che, chissà ancora per quanto, i giocatori di basket dei campionati italiani non vivranno.
Porte chiuse: questa è la pallacanestro al tempo del Coronavirus, per proteggere protagonisti e fruitori da un nemico subdolo. Cattedrali deserte dove il rumore del pallone sarà pari all'urlo dei coach.
Andrea Meneghin, campione d'Italia con Varese e d'Europa con la Nazionale nel 1999, è stato un giocatore capace di accendere passione e fantasia dei propri tifosi. Ha anche raccolto improperi e cori dagli avversari per la sua capacità di giocare da vincente e insaccare palloni decisivi. Oggi commenta su Eurosport la pallacanestro, lo sport di famiglia visto che il papà di nome fa Dino, con arguzia, competenza e ironia.
Andrea, lei ha mai giocato una partita a porte chiuse?
«A memoria, e non sono mica così vecchio da non ricordare, direi proprio di no. Seppure poca gente, magari quando ero ancora un bambinello, l'ho sempre avuta intorno».
Allora facciamo così. Provi a immaginare di essere in calzoncini e canottiera e che sbucando sul parquet di un palasport di serie A intorno a lei, ai suoi compagni e agli avversari, ci fosse il vuoto e il silenzio. Cosa proverebbe? «Sarei certamente disorientato e sorpreso. Correrei con la mia squadra al centro del campo, come succede abitualmente, metterei la mano sopra quelle degli altri per l'urlo e girandomi cercherei ciò che non c'è: la gente. Si gioca per sé stessi, per dei colori e soprattutto per chi, tifando per te o l'avversario, viene a vederti. Ma dopo un momento di sbandamento mi concentrerei come ho sempre fatto. Iniziata la routine del riscaldamento non mi farei condizionare dalla presenza o l'assenza della gente. Per me è stato sempre così».
Non crede quindi che il tifoso possa essere il sesto uomo?
«Il calore della gente è un ingrediente irrinunciabile per una partita di basket. Ma io, Andrea Meneghin, non mi sono mai fatto trascinare, nel bene o nel male. Il tifo regala energia, ma poi il canestro decisivo o la difesa alla morte la devi fare tu con i tuoi compagni, non la gente sugli spalti». Quali potranno essere i pro e i contro che i giocatori incontreranno nei prossimi turni a porte chiuse?
«La squadra in trasferta non troverà il ruggito, specie sui campi più caldi, delle curve avversarie. Ma questa potrebbe essere anche un'arma per chi gioca in casa: non si sentirà la pressione dei propri sostenitori. Diciamo che gli ultras potranno diventare i compagni in panchina con qualche incitamento. E chi sta in campo, nel silenzio irreale degli impianti, non potrà fare finta di non sentire le raccomandazioni o i rimproveri degli allenatori. Magari qualche problema in più potranno averlo i tiratori a cui gli spalti vuoti faranno cambiare la prospettiva».
Lei ha vinto uno scudetto con Varese. Cosa pensa dell'addio di Jason Clark, tornato negli Usa per paura che il Coronavirus lo costringesse a non poter assistere alla prossima nascita del suo primo figlio?
«Lo capisco, e se fossi stato al suo posto probabilmente mi sarei comportato allo stesso modo. Il basket e il lavoro sono importantissimi nella vita di un uomo, ma la nascita di un figlio ancora di più. La famiglia è un valore assoluto che ha priorità su tutto». Come pensa evolverà la situazione?
«Non lo sanno i medici e ricercatori impegnati in prima linea, non posso saperlo nemmeno io. La mia speranza, e quella di tutti, è che presto si possa tornare alla normalità. Fermarsi o giocare a porte chiuse è un sacrificio necessario per limitare questo virus terribile e salvaguardare la vita di tante persone».
«Chi prenderà il posto degli ultras? Saranno i compagni in panchina!»
«Il tifo regala energia, ma poi il canestro decisivo lo devi fare tu»