Bergamo, il pianto cupo delle sirene
È la Wuhan italiana: i numeri dei decessi, in percentuale, sono più elevati Fino a un mese fa era una città universitaria e turistica Marzo ha portato via tutto, costringendo un intero territorio a una quarantena permanente
o tagliano nelle strade cittadine dove non cammina nessuno.
Dirette alle trincee dei tre grandi ospedali sotto i riflettori: Alzano Lombardo, Seriate e il moderno Papa Giovanni XXIII. Che porta il nome del Papa bergamasco: la sua statua domina l’ingresso, infondendo coraggio e calore. I bergamaschi sono gente di fede, ma anche le chiese sono state chiuse e le messe sospese. Come tutto il resto.
La vita è scomparsa dagli spazi pubblici, dai marciapiedi, dalle strade. Si è trasferita nelle piazze virtuali dei social e delle chat, dove si aggiornano i dati e si pubblicano le notizie utili. Soprattutto quelle relative all’ospedale e ai posti in terapia intensiva sempre al limite. Bergamo è una città decapitata nelle istituzioni: i primi a contagiarsi sono stati il Prefetto, il Questore e il direttore generale dell’ospedale. Il contagio non ha risparmiato nessuno.
Nemmeno l’Atalanta, finita in quarantena precauzionale perché i suoi ultimi avversari, quelli del Valencia, hanno una manciata di contagiati. Qui le bandiere arcobaleno con la scritta ‘andrà tutto bene’ sono mosche bianche. Che senso ha parlare di lieto fine quando ogni quartiere piange decine di morti, sepolti senza nemmeno il saluto dei loro cari? Non andrà bene, non potrà andare bene con più di 400 morti ad oggi. Questa è la realtà cruda di Bergamo. Peggio di Wuhan. Nei numeri. E non solo. Perché Bergamo fino ad un mese fa era una città universitaria e turistica, dove incontravi asiatici, americani, europei e russi, attratti dalle meraviglie della Città alta, con la sua rocca e le splendide mura veneziane patrimonio dell’Unesco. Marzo ha portato via tutto, costringendo un intero territorio a una quarantena permanente, senza blocchi dei militari. La gente sta in casa perché non vuole uscire. E intanto pensa, e recrimina, sui social. Bergamo si è sentita tradita da decisioni tardive. Due settimane fa medici e sindaci chiedevano di istituire la zona rossa per isolare Alzano e Nembro, i comuni focolaio all’imbocco della Val Seriana: forse avrebbe potuto limitare i contagi e il propagarsi del virus. Che, qui lo dicono tutti, ha colpito vigliaccamente insinuandosi negli ospedali e negli ambulatori medici, per poi diffondersi rapidamente, di casa in casa. Qualcuno osserva, ma non ci sono evidenze a riguardo, che anche il destino ha giocato contro, con la partita dell’Atalanta contro il Valencia, la partita che i bergamaschi attendevano da una vita.
Quel 19 febbraio il virus incubava, senza che lo sapessimo: 45mila tifosi stipati sui primi due anelli del Meazza, migliaia di loro pigiati nei bus per sei o sette ore tra andata e ritorno a Milano in una autostrada A4 ingolfata, tra canti, abbracci e bottiglie che giravano in una giornata spensierata tra amici.
Forse, il virus si è propagato anche così, negli abbracci di quella notte crudele, perché la gioia della vittoria trasportava anche la malattia invisibile.
Quella che adesso costringe i bergamaschi ad assediare i supermarket con i guanti in lattice per proteggere le mani dal contatto con il carrello della spesa. Tutti con le mascherine, distanziati, in silenzio. Perché nel fiato, nella parola, viaggia il virus. Forse si, forse no. Ma qui ormai nessuno ha certezze, tranne i numeri di morti e contagiati.
Per questo Bergamo è peggio di Wuhan.