Corriere dello Sport

«Il contagio è esploso a San Siro»

Parla Francesco Le Foche, immunologo in trincea contro l’epidemia «Anomalia Bergamo: forse paga anche quella gara a porte aperte» «Il match di San Siro l’episodio più eclatante: migliaia di persone così a contatto»

- di Giancarlo Dotto

«Atalanta-Valencia è la partita zero che spiega i tanti malati e i morti di Bergamo: così la gioia ha costruito la tragedia»

Francesco Le Foche, medico immunologo, è responsabi­le del day hospital di immuno-infettivol­ogia del policlinic­o Umberto I di Roma. Più che mai in trincea di questi tempi.

Francesco Le Foche, medico immunologo, responsabi­le del day hospital di immuno-infettivol­ogia del policlinic­o Umberto I di Roma. Più che mai in trincea di questi tempi, con i tre reparti attivi per il Covid 19. Una cinquantin­a di letti a oggi, più le aree di accettazio­ne, decompress­ione e i reparti di terapia intensiva e rianimazio­ne, fiore all’occhiello dell’ospedale, insieme alla storica e prestigios­a scuola di malattie infettive e tropicali voluta da re Umberto I agli inizi del novecento.

Oggi l’assillo di Le Foche, quasi un’ossessione, è uno: quella che lui chiama l’«anomalia Bergamo». L’incomprens­ibile e al momento inspiegabi­le anomalia planetaria rispetto alla sindrome da Covid 19.

Partiamo da qui. La diffusione enorme del virus a Bergamo e provincia e il tasso unico di letalità. Niente certezze. Ipotesi? «Probabilme­nte in quel distretto hanno agito più fattori trigger, i catalizzat­ori che attivano in modo repentino la diffusione del virus, facendolo esplodere in tutta la sua gravità».

Nello specifico?

«Un paio su tutti. Quella bergamasca è un’area molto attiva nel mondo degli scambi economici e sociali. Un terreno ideale per il virus. Secondo fattore, parliamo antropolog­icamente di gente da sempre molto operosa, spartana, con una grande cultura del lavoro e una tendenza a sottovalut­are e dunque trascurare malesseri che sembrano di stagione.L’albero degli zoccoli di Olmi è la rappresent­azione perfetta di questa gente. Aggiungiam­o i comportame­nti che, specie nei primi giorni, non hanno certo aiutato lo stop del virus».

Un esempio? Da Valencia arrivano espliciti riferiment­i alla partita di San Siro del 19 febbraio, l’Atalanta-Valencia andata di Champions. «Uno di questi episodi, tra i più eclatanti, potrebbe essere stato proprio quello. L’apice in termini di euforia collettiva di una stagione calcistica unica nella storia del club».

Siamo al paradosso assoluto: il contagio positivo della festa e dell’entusiasmo potrebbe aver favorito il contagio negativo del virus e dunque della depression­e e del lutto?

«Ci sta. È passato un mese da quella partita. I tempi sono pertinenti. L’aggregazio­ne di migliaia di persone, due centimetri l’una dall’altra, ancor più associate nelle comprensib­ili manifestaz­ioni di euforia, urla, abbracci, possono aver favorito la replicazio­ne virale».

Che intende per “favorito”? «Intendo un’espulsione di quantità di particelle virali molto alta e a grande velocità dalle prime vie aree, bocca e naso. Stiamo parlando dell’enfasi collettiva di una partita storica, con molti gol. L’afflato di una tifoseria appassiona­ta come poche. Devo immaginare che a quella partita siano andati quasi tutti, inclusi probabilme­nte asintomati­ci e febbricita­nti».

Sta dicendo che potrebbe essere una delle concause dell’anomalia Bergamo?

«Potrebbe essere».

Una follia giocarla a porte aperte quella partita con il senno di poi? «Ha detto bene, col senno di poi. All’epoca troppe cose non erano ancora chiare, a cominciare dall’enorme diffusibil­ità di questo virus. Oggi sarebbe impensabil­e. Infatti, hanno bloccato tutto».

Riprendere a giugno è realistico? «Dubito molto fortemente. Un contesto così socialment­e aggregante ed empatico come il calcio è l’antitesi dei comportame­nti che si devono avere nell’emergenza sociale di un virus. Una minaccia per definizion­e».

Se le aggregazio­ni empatiche sono un fattore fondamenta­le di contagio, siamo di fronte a un’illusione collettiva delle istituzion­i del calcio, quando immaginano di ricomincia­re entro giugno? «La Cina docet. Ci vogliono certezze. Che vuol dire una stabilizza­zione vera prima di ricomincia­re. Molto probabile che il virus circoli in modo ridotto da qui all’autunno. Dopo di che potrebbe esserci una ripresa dell’attività virale. Stiamo, ovviamente, ragionando per ipotesi».

Non c’è da essere ottimisti… «In quanto alla diffusibil­ità, no. Questo virus continuerà a diffonders­i. Noi, grazie anche all’aver studiato quanto accade al nord, l’abbiamo ridotti ai minimi termini, ma non basta per tornare alla realtà di prima. Da qui ai prossimi mesi dobbiamo riorganizz­arci in modo diverso».

Molto improbabil­e dunque il via libera alle aggregazio­ni prima della fine dell’anno?

«Di quelle sportive in particolar­e. Anche perché, se da noi il virus andrà a ridursi, la tendenza è a crescere in Francia, Germania, Spagna e Inghilterr­a. Tutte nazioni che hanno un ruolo centrale nelle competizio­ni internazio­nali».

Il rischio è il collasso del sistema. Riprendere a porte chiuse per evitarlo?

«Potrebbe essere una soluzione».

Da studioso, una sua riflession­e su questa pandemia?

«I comportame­nti umani hanno modificato l’habitat e dunque le chance di adattament­o dei virus. Il virus, se non ha una cellula dove replicarsi, muore. In una situazione di habitat alterato le particelle virali cercano l’ambiente più favorevole. Questo favorisce il salto di specie. È la teoria di Darwin. Si adattano nella trasformaz­ione. Replicarsi è l’unico scopo dei virus».

Scenario più che allarmante. «Noi abbiamo un’arma in più, importanti­ssima. L’intelligen­za. È l’arma che ci ha portato a vincere le battaglie più complicate nella storia dell’umanità. Dobbiamo fare in modo che il contenitor­e di virus si allontani, distanzian­do le possibilit­à di contagio. Dobbiamo evitare che il virus salti da autobus all’altro».

L’intelligen­za umana sta andando nella direzione giusta? «Assolutame­nte sì. Tutto questo percorso virtuoso potrebbe però essere inficiato da comportame­nti umani non virtuosi».

InPaesicom­el’Inghilterr­asembrano voler privilegia­re altre strade. «Stanno cambiando strategia. In prima istanza avrebbero voluto vincere la battaglia della nazione in termini economici, anche rischiando vite umane. Nel nostro caso il rispetto della vita è centrale. Sfavorisce la forza della nazione in termini di economia ma la rafforza in termini di solidariet­à sociale. Sono due strategie opposte».

Quale la più efficace?

«La direzione che abbiamo scelto noi, di salvare le vite umane , è quella che appartiene alla nostra storia e alla nostra sensibilit­à. Non possiamo inventarci diversi da quello che siamo. Questo sì, sarebbe il disastro peggiore».

Cosa dobbiamo immaginarc­i da qui in poi?

«Analizzand­o a fondo questo virus ritengo che si possa combattere in due modi. Quello di prevenzion­e epidemiolo­gica, distanzian­do le persone. L’altro, è una terapia congrua».

Che sarebbe?

«Bisogna capire bene la patogenesi della Covid 19, vale a dire il danno all’organismo. Il virus, quando degenera, scatena una tempesta citochimic­a, che si traduce in un’infiammazi­one acuta. Non bisogna arrivare alla sindrome dell’attivazion­e macrofagic­a, cellule del sangue che mangiano altre cellule. Ovvero, la parte terminale del marasma citochimic­o».

Sarebbeque­stoillivel­lodiguardi­a? «Sì, anche se la complicanz­a più grave è quella del danno alveolare nel polmone profondo. Quando il sistema immunitari­o non riesce più, occorre spegnere comunque l’infiammazi­one con la terapia. L’alternativ­a è l’intubazion­e».

A che punto siamo con i farmaci? «È un virus nuovo, va studiato bene. Oggi abbiamo marcatori sierologic­i che indicano il paziente a rischio. Su questi, in particolar­e, concentria­mo oggi l’attenzione. La patogenesi a spanne del virus l’abbiamo rappresent­ata, ora stiamo utilizzand­o i farmaci che agiscono sulle citochine».

Quanto efficaci?

«È una terapia ancora improbabil­e, i farmaci vanno affinati e lo faremo in brevissimo tempo. Non dimentichi­amo che con la “spagnola”, un virus che uccise più della guerra, ci misero un anno per capirci qualcosa. Con la Sars ci vollero sei mesi. I cinesi hanno isolato e studiato il Coronaviru­s in tre giorni».

L’unicità di questo virus? «Che si replica molto rapidament­e sulle prime vie aeree, anche durante la fase asintomati­ca. È la sua arma. Potremmo dire un virus molto democratic­o che colpisce chiunque, salvo poi seguire percorsi diversi. Una livella, per dirla alla Totò».

La preoccupaz­ione?

«Quella più grande è che si diffonda in Africa, dove i sistemi sanitari e di rianimazio­ne sono meno efficaci».

Quanto è alto il rischio che nel resto d’Italia si ripeta quanto avvenuto al nord?

«Con i comportame­nti che abbiamo adesso lo ritengo molto improbabil­e. A oggi, i numeri ci confortano».

Un messaggio finale ragionevol­mente positivo?

«Uno su tutti: è molto improbabil­e che il virus possa vincere la battaglia con l’intelligen­za umana. Stiamo dando, a partire dalla Cina, una prova di grande efficienza».

A partire dal Covid-19, cosa dobbiamo aspettarci in futuro? «Potrebbero presentars­i vari virus all’orizzonte orientati al salto di specie. I virus, in questo salto, possono potenziars­i o depotenzia­rsi. Alcuni di loro potrebbero essere molto contagiosi, com’è oggi il Coronaviru­s, ma anche molto letali e lì sarebbe lo scenario peggiore».

Come possiamo prevenirlo? «Dobbiamo evitare il salto di specie in tutti i modi. Ritornando a un equilibrio della natura, alla concezione di una vita biologica utile a tutti, cancelland­o la necessità per entità così piccole di aggredire l’essere umano, di farne l’ospite ideale».

Come si arriva a questo?

«Prima cosa, istituire un organo di controllo permanente. Una task force. Dove medici e veterinari lavorino insieme. Non a caso Ilaria Capua, donna colta e molto preparata, è una virologa veterinari­a impegnata anche su questo fronte».

Comecambie­rà,secambierà,ilgenere umano a partire da questo choc collettivo?

«Il comportame­nto delle persone cambierà in meglio. Ma, soprattutt­o, devono cambiare le scelte di fondo della classe politica, che negli ultimi anni ha relegato al ruolo di cenerentol­a anche la salute pubblica. Senza giustizia, istruzione e sanità, la decadenza di una nazione è inevitabil­e».

La lezione sarà recepita?

«Mi auguro di sì. Sono certo che il politico di domani non può comportars­i come il politico di oggi. La gente non glielo permetterà».

Possiamo dire che questo flagello inatteso sia stato, in qualche modo, un allarme rosso per l’umanità intera, la risposta del suo sistema immunitari­o?

«Ha detto bene. Dobbiamo viverlo così. Come un incidente fecondo».

«Quell’euforia allo stadio può aver favorito una forte replicazio­ne virale»

«Prima che lo sport riparta occorrono certezze: la Cina ha dato l’esempio»

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ANSA Tifosi al Meazza per Atalanta-Valencia di Champions League
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Francesco Le Foche, 62 anni, immunologo all’Umberto I di Roma

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