Corriere dello Sport

«IL VIRUS È UN SEGNO E LA RISPOSTA VIENE DA SINISA»

L’epidemia secondo Zuppi cardinale e arcivescov­o di Bologna

- di Bruno Bartolozzi

«Quando tutto sarà passato, ricordiamo che il nemico è l’individual­ismo, la vita è uno sport di squadra: ciascuno lotti per l’altro»

«Abbiamo chiuso per primi i voli dalla Cina, eppure... Non possiamo non essere uniti contro il male: i muri vanno abbattuti Mihajlovic scoprì la malattia e disse: mi sentivo invincibil­e e invece ero fragile, ora do valore a cose che prima ignoravo

È la chiave per reagire al dramma di oggi»

Eminenza, l'epidemia che sta colpendo il mondo è un fatto concreto e durissimo, ma è anche un segno? «Senza dubbio, è un segno dentro la storia del mondo che sarebbe da sconsidera­ti non leggere».

Lei cita Giovanni. Non siamo del mondo, ma viviamo nel mondo. Cosa intende?

«Siamo nello spirito del Concilio Vaticano. Il segno è evidentiss­imo. Anche ora che si ondeggia nel seguire gli sviluppi di questa epidemia. Tutto quello che abbiamo pensato e proposto non è bastato. In tempi di globalizza­zione i muri cadono. Noi siamo stati il paese che ha chiuso per prima i voli con la Cina, eppure... E allora il senso suggerito è che l'uomo non può più stare da solo, come non possiamo pensare di non essere interdipen­denti nel male dobbiamo cercare di esserlo nel combatterl­o. Abbiamo bisogno dell'altro e dobbiamo servire l'altro. Questo è il segno che arriva con l'epidemia».

Il segno spinge al cambiament­o? «A me colpirono alcune parole di Mihajlovic, l'allenatore del Bologna, subito dopo la scoperta della sua malattia. "Mi ritenevo invincibil­e", disse. "Invece ho conosciuto la mia fragilità. Ora do valore a cose alle quali prima non prestavo attenzione". Questo è il cambiament­o che il segno provoca e ci fa essere più noi stessi, più veri, più consapevol­i».

Nelle grandi epidemie dei secoli passati, si accettava l'idea di cambiare tutto perché i sistemi non erano così stabili e invasivi. Una volta persino nutrirsi e lavorare aveva meno certezze. Oggi non possiamo fare a meno di un minimo device tecnologic­o, altrimenti si va in crisi. Una volta si dava la colpa a noi stessi che avevamo provocato l'ira di Dio e, attraverso penitenze religiose e civili, si aggiustava il modo di vivere. Ora questo modo di vivere dipende più dai dispositiv­i che dai valori?

«Nel passato interpreta­vano il sorgere di epidemie come una punizione. Si trattava di individuar­e il colpevole: quando l'uomo si crede Dio e va avanti senza Dio il diretto interessat­o ad un certo punto rimette le cose a posto. Ma il Padreterno ha misericord­ia, è diventato noi, non usa il male. Il male viene dal male. C'è un passo di Luca, nel quale Gesù riferisce del crollo della torre di Siloe che uccise 18 persone. Gesù domanda: Pensate sia successo a loro perché erano più peccatori? Sì è salvato chi era puro? No, è un richiamo che ci deve spingere a cambiare, a iniziare a fare quello che non abbiamo fatto. Non buttiamo via la vita. Facciamo cose che ci tengano insieme con l'amore. Questo è l'insegnamen­to della Scrittura».

E come calare questo segno nella nostra vita?

«Scegliere di volere bene e seguire l'esempio di Gesù che ci insegna a essere felici vivendo il Vangelo. Questo non è un regolament­o, ma un annuncio: Gesù è nato, ha amato, e per amore e ha vinto la partita contro la morte. Vivere il Vangelo non è studiare e applicare delle regole. È molto di più: è volere bene e sapere di essere voluti bene. Un vescovo brasiliano diceva: "Amare Gesù e amare il prossimo è bello quanto giocare il calcio, ma io amo il calcio perché l'ho visto giocare, non perché ho studiato il regolament­o! Quello l'ho studiato dopo!”. Quando verremo interrogat­i non ci chiederann­o il catechismo, ci chiederann­o come abbiamo amato nella nostra vita terrena. E poi ci sono le grandi domande: dove sta Dio? Giobbe alla fine ci svela l'umanità di Dio, perché Dio ci aiuta a giocare e a vincere la partita della vita».

Il calcio è quindi una metafora ricca di segni?

«Ha ragione il vescovo brasiliano. Se penso di giocare a pallone avendo in mano solo il regolament­o è facile che abbandoni prima di cominciare. Nella vita il Signore ci aiuta a giocare bene, a rendere al massimo, a fare del bel calcio. Dio è un grande organizzat­ore di tornei».

E come fa Dio a essere il grande player della nostra esistenza? «Attraverso l'amore».

Questa non è una formula astratta?

«No, provi a seguirmi. È capitato a ciascuno di noi, succede anche ai profession­isti più smaliziati. Se assiste alla nostra partita qualcuno che ci ama noi giochiamo meglio. Diamo tutto. Accade quando c'è l'attesa di una comunità, i tifosi che nutrono un'aspettativ­a.

E noi facciamo bene perché uno sguardo si è posato su di noi. Nella sfida contro il virus ce la faremo sapendo che il Padreterno ci osserva e fa tifo per noi in questa sfida a gara unica che è la nostra vita e che vinciamo solo assieme».

Cosa vuol dire fare bene nel calcio e nella vita? «Il calcio funziona se il grande talento si mette al servizio della squadra. La nostra genialità, la nostra tecnica, la nostra capacità devono operare attraverso ciascuno di noi. Certo: con le caratteris­tiche che ognuno di noi possiede, ma guardandoc­i tutti come compagni di una stessa squadra. E questo dona valore al talento di ciascuno».

Il calcio e lo sport si sono fermati dopo tante polemiche, contrasti e speculazio­ni. Che impression­e ne ha ricavato? «Vediamo di fronte l'economia e la produttivi­tà del calcio come sistema e dall'altra la difesa della vita. Ma viene prima la vita. Se la grande macchina economica del calcio conta più dei valori non va bene, ora più che mai. Le storture o i disvalori che hanno fatto mettere al primo posto gli interessi economici al cospetto della vita vanno ripensati nel calcio e negli altri aspetti della società. Dovremo ricordarci questo soprattutt­o dopo».

Il calcio è stato capace di mettere davanti l'uomo, a volte... «Quando è morto Astori il calcio si è fermato. È la testimonia­nza che esiste qualcosa che conta di più: il valore non è solo quello in campo, ma fuori. Se perdiamo tutto questo anche la bellezza dello sport non ha più senso».

Atalanta-Valencia è stato un incubatore, una potente bomba biologica che ha fatto dilagare il virus, attraverso una festa di sport. Si riaffaccia l'antico problema del male. Chi crede come fa a concepirlo? Dov'era Dio, quella sera a San Siro? Dov'è San Michele che ferma il Diavolo, seguendo la narrazione della Scrittura? «Quella partita, quella festa è il simbolo della spietatezz­a del male, la beffa del male che irride alla gioia. San Michele c'è e Dio ha preso i virus della debolezza e della vita quando si è calato fra di noi. La spada di San Michele è rappresent­ata dai medici e dagli infermieri che si sacrifican­o e danno tutto, anche la propria vita. Lì c'è la salvezza che si traduce in un comandamen­to universale: ama il prossimo tuo. Dobbiamo capirlo oggi e per i giorni che verranno: l'individual­ismo è complice del male. Così come nello sport: vince la squadra».

Gli esempi devono venire anche da chi ha visibilità e può essere un esempio. Alcuni calciatori presi dallo spavento sono scappati, altri testimonia­no invece in altra maniera l'obbligo di restare a casa, cosa ne pensa? «I calciatori sono ammirati e osservati. Devono offrire la capacità tecnica insieme a quella umana: il volere bene».

In questi giorni un ex calciatore, Andrea Sottil ha raccontato che questo periodo di quarantena ha fatto riscoprire il dialogo con il figlio, Riccardo, calciatore della Fiorentina, costretto come lui a condivider­e gli spazi e un tempo che diventa diverso, più intenso. È una situazione che fa riflettere? «L'uomo di spettacolo e il divo dello sport possono essere esempi positivi, con il comportame­nto in campo, certo, ma anche mostrando ad esempio attenzione a chi è più debole, a chi è vittima del male, impreziosi­sca il proprio tempo. In questo senso il tempo che la famiglia di calciatori che lei cita sono un esempio. Un modo evangelico per vivere i propri momenti di isolamento».

Non solo dal mondo della spirituali­tà vissuta con la rivelazion­e arrivano questi precetti. Boccaccio nel Decamerone, che non è certo un testo canonico, riferisce del tempo diverso che si assapora nelle campagne fiorentine da sette uomini e tre donne che coltivano il bello e l'arte nei dieci giorni di la lontananza dall'infuriare della peste. Anche lo sport, disciplina laica, ha la sua precettist­ica e il suo stile. Si può scoprire una dimensione dove si recuperano la cura del corpo e la gentilezza? «Lo sport come l'arte non fa eccezione a questo precipitar­e. I giorni che passiamo a casa sono segnati dall'incertezza per il futuro. La provvisori­età è la dimensione che si è tragicamen­te rivelata. E allora dobbiamo avere a che fare con una scelta che sarà anche utile per il dopo. La compulsivi­tà da cui siamo stati trascinati o perdere il proprio tempo su quello che conta, guadagnand­olo? è tempo di farsi domande sul nostro tempo. Anche per il futuro...».

E lo sport?

«Aiuta a spostare l'attenzione, in questi momenti su cosa conta di più. L'attività principale dello sport è l'allenament­o che ha bisogno di rigore, disciplina e sacrificio. Pena la delusione al momento della gara. E questo è un grande insegnamen­to: perdere tempo nell'allenament­o? In questi giorni di isolamento vale ancora di più, bisogna allenarsi a esercitare la propria disciplina».

E dopo? «La vita impari dallo sport: far crescere la sincronia del gioco e coinvolger­e tutti. Guardando una gara sportiva a volte ho capito cosa non andasse in alcune cose della vita».

Cosa l'ha scandalizz­ata, proprio in senso evangelico, in questi giorni? «La solitudine di chi soffre, quando restano sole le persone travolte dalla malattia».

C'è chi solo deve restare... E chi, come i senza tetto, non può nemmeno permetters­elo. «Per amore in questi giorni di contagio dobbiamo essere isolati e non salutare o fermarsi a distanza. Ma ci sono tanti modi di essere vicino. Chi va a portare da mangiare ai senza tetto, tende una mano e risolve un bisogno e in più testimonia: "Non sei solo", "Noi non ci stiamo senza di te". Chi va a dire al suo vicino che non esce: se vuoi ci penso io a farti la spesa, ecco, gli dice: mi prendo cura di te. Bisogna avere relazioni di solidariet­à e protezione del debole.

La Chiesa ha fatto tutto quello che poteva? «La Chiesa deve fare sempre di più e non riesce mai a fare tutto quello che può, perché deve fare quello che serve e ricordare a tutti quello che ci è mancato per costruire un domani migliore».

Ha sentito Papa Francesco in questi giorni? «No, ma l'ho ascoltato. Quando parla mi colpisce sempre: penso che alcune sue parole le ho dette proprio pensando a me».

E lo sport? In che cosa sperare adesso che persino le attività minime sono proibite o ridotte e ci appaiono remote le feste sportive, le gare, le emozioni? «Spero che tutti ritrovino insieme allo spettacolo sportivo maggiori attenzioni negli altri, anche verso chi lo condivide con noi gli spazi negli stadi. Torneremo a vedere le partite con maggiore consapevol­ezza dopo quello che sta accadendo. Ma ritorni la gioia. Voglio citare proprio il Papa: "Non dobbiamo farci rubare la gioia"».

«Un vescovo brasiliano disse che amare il prossimo è bello come giocare al calcio: ma lo si ama giocando, dopo vengono le regole»

«Torneremo allo stadio e lo faremo con consapevol­ezza e più rispetto. Ma come dice il Papa: Non dobbiamo farci rubare la gioia»

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Bologna e il Nettuno deserti per l’obbligo di restare a casa Piazze presidiate, ma non tutti hanno una dimora fissa
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Sinisa Mihajlovic, colpito da leucemia, ha affrontato una lunga e dura cura
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 ??  ?? Matteo Maria Zuppi, 64 anni, cardinale e arcivescov­o di Bologna lungo i portici deserti di San Luca. Sotto Arianna Mihajlovic nello stesso percorso per chiedere la grazia per il marito
Matteo Maria Zuppi, 64 anni, cardinale e arcivescov­o di Bologna lungo i portici deserti di San Luca. Sotto Arianna Mihajlovic nello stesso percorso per chiedere la grazia per il marito

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