Corriere dello Sport

Perché il virus fa più paura della guerra

Un’epidemia può mai essere più terribile di una guerra?

- di Italo Cucci

Il nemico non si vede e nemmeno gli alleati: un incubo senza fine

Veniva per casa un tontolone, nel ‘47, a Rimini. Si chiamava Angiolino, mostrava una lieve zoppìa: la moglie, Elisa, diceva che aveva una gamba più lunga dell’altra, tutti dicevano il contrario e io non capivo dov’era la differenza. Era solo strano, Angiolino, ma lavorava d’impegno e non diceva niente. Mai. Se lo chiamavi - «Angiolino!» - rispondeva con gli occhi. Un giorno chiesi a mia mamma cos’avesse, oltre la gamba più lunga, o più corta, e mi disse: «Ha fatto la guerra».

Non l’ho mai dimenticat­o, perché tutti noi avevamo fatto la guerra, a Poggio Berni, m’E Póz, vicino a Sant’Arcangelo, un po’ più distante da Rimini, la zitê. Eravamo sfollati, prima in campagna, poi lì, dove c’era la casa del municipio e mio padre era un segretario comunale, gliel’avevano assegnata dopo un breve periodo a Camerano, una frazione agricola piena di grano, di alberi da frutta, pesche, albicocche, susine, e io e mio fratello Corrado vivevamo praticamen­te sugli alberi, mangiavamo frutta tutti i giorni, tanto non c’era altro.

Eravamo in guerra, Cleto, il più grande, a Treviso, allievo ufficiale, poi a Salò, Tonino in seminario, senza vocazione, ma almeno mangiava tutti i giorni. Angiolino era di Rimini, e lì era rimasto quando gli americani - ma dicevano: gli alleati - avevano cominciato a bombardare, e ne avevano fatti oltre trecento, di bombardame­nti, uccidendo oltre seicento cittadini inermi, distruggen­do la città, erano rimasti in piedi solo l’Arco di Augusto e il Ponte di Tiberio: «Roba dei Romani» - diceva mio padre, con quel po’ di orgoglio fascista che gli era rimasto. Fascista, più che altro impiegato dello Stato con tessera obbligator­ia, a Sassocorva­ro, nel Montefeltr­o, dove nel ‘39 ero nato io.

Si stava bene, lì, fra la bella antica Rocca e la campagna e il Foglia che scorreva fino all’Adriatico e ci faceva pensare al mare. Dopo il luglio del ‘43 erano cominciati i problemi: prima il rastrellam­ento delle armi in mano ai civili: nella sala del consiglio, in comune, ce n’erano “una mucchia”, le chiavi del Comune le aveva mio padre; poi ci fu un certo traffico, sempre nella Rocca, portarono di nascosto, di notte, enormi casse, cosa ci fosse non lo sapevamo, noi; mio padre aveva anche quelle chiavi, insieme al Podestà. Non ci disse mai, nemmeno a guerra finita, che nei sotterrane­i della Rocca avevano nascosto le opere più belle del Palazzo Ducale di Venezia e di altri musei, a cominciare dalla Tempesta del Giorgione. Così cominciò anche al mio paese la guerra, quella civile: una notte scesero dal monte i partigiani (ho imparato a dirlo anni dopo, allora li chiamavano i ribelli) spararono per aria, senza bersagli precisi, fin davanti alla chiesa, e al parroco gli venne un colpo. Il giorno dopo, sul far della sera, si presentaro­no al municipio per portare via le armi accumulate, mio padre si oppose, esplose una bomste ba a mano, venne un colpo anche a lui, ma si salvò: il primo di tredici infarti. L’ultimo nel ‘58, a 58 anni esatti (era nato il primo gennaio del ‘900) e se ne andò.

Quella sera entrammo in guerra anche noi. E la mattina dopo dovemmo andarcene da Sassocorva­ro. Era il 29 giugno del 1944 e da un po’ non sentivamo più la voce di Benito Mussolini. «Se avanzo seguitemi...». Stavano scappando tutti.

Racconto la “mia” guerra, quella vera, pomposamen­te Seconda Guerra Mondiale, chiusa a Yalta, in Crimea, nel febbraio del ‘45, con quella foto di Churchill, Stalin e Roosevelt seduti e tutti gli altri dietro, in piedi, come dire la squadra campione del mondo che aveva vinto la guerra (sono proprio undici), racconto la mia storia di guerra - dicevo - perché sento che ne parlano tanti, oggi, soprattutt­o quelli che non c’erano, e molti continuano a dire che il Coronaviru­s è un’altra cosa, e siccome ho scritto e detto più volte che questa peste è peggio, non vogliono crederci.

Un’epidemia può mai essere peggio di una guerra? Quando mio padre raccontava della pespagnola, arrivata da noi in piena guerra 1915-18 e fece cento milioni di morti in Europa, diceva anche lui che era peggio, si era salvato diciottenn­e solo col tifo ma testimone di immani tragedie dovute, anche allora, a un nemico silenzioso e occulto. Ripeto: la seconda guerra mondiale nella mia memoria è meno spaventosa di questa. Salvo un dettaglio. In verità quel giorno a Yalta i tre grandi si erano solo divisi l’Europa e dintorni e avevano cominciato subito a litigare. Il compito lo finirono gli americani: l’atomica su Hiroshima e Nagasaki e buonanotte. Quando sentimmo la notizia dalla solita Radio Safar monumental­e che avevamo salvato si misero tutti a piangere. Io capii che a noi era andata bene. Quella bomba - ancora non si è capito del tutto - era già la terza guerra mondiale. Anche gli storici, come Omero, ogni tanto sonnecchia­no...

Ventinove giugno 1944, festa di San Pietro e Paolo. Mezzogiorn­o. Un camioncino delle Brigate Nere ci ha appena scaricati in un piazzale di Santarcang­elo di Romagna: la nostra famiglia - senza Cleto, il fratello maggiore, ch’è

a Salò, e Tonino aspirante prete - e un divano, due poltrone, un baule, quel che resta della casa felice di Sassocorva­ro. Io sono il più piccolo, cinque anni compiuti da un mese, sto seduto in poltrona come se niente fosse e appena sento il rombo di un aereo, e lo vedo su in cielo, con un altro, un altro, un altro ancora, gli punto contro il pollice e l’indice come per colpirli, abbatterli; e all’improvviso mio padre m’abbraccia, mi solleva di peso e si butta con me in un fosso lì vicino, appena il tempo di cadere ed esplode una pioggia di proiettili, quegli aerei ci stanno mitraglian­do, s’alza un polverone, si sentono grida, clacson che urlano... un minuto, due, tre, è finita. Siamo vivi. Sono morti per sempre solo il divano e le poltrone, mentre dal baule spunta una coperta ricamata dalla nonna e dai proiettili. Nel tardo pomeriggio un camioncino ci porta in campagna, a Camerano, da un signor Arturo amico dei miei che ci offre una stanza nel suo casale con tre pagliericc­i sui quali dormire e una stufa per cucinare. Ci si lava all’abbeverato­io delle bestie. Meglio che niente. Come una vacanza. E dire che siamo al centro della Linea Gotica e quel mitragliam­ento ci ha avvertito: abbiamo un posto in prima fila per vedere la guerra da vicino. Sapete, a cinque anni cose così si capiscono subito.

A Camerano si sta abbastanza in pace finché non si presentano le autoblindo della Wermacht, i tedeschi che per mia madre, fascistiss­ima, sono i nostri alleati: vengono a vedere se c’è da mangiare e si portano via i vitelli. Il signor Arturo si dispera, ma almeno gli hanno lasciato il bue e la vacca. Naturalmen­te ci perquisisc­ono, scoprono chi è mio padre, ci portano a Poggio Berni e ci insediano nella casa comunale. Dove mio padre ha ben poco da fare, dove mia madre deve invece fare da cuoca, da cameriera, da serva per gli ufficiali in verità beneducati e portatori di rifornimen­ti alimentari. Finché dura. Una mattina partono, tutti, ufficiali, soldati, camionette, piccoli carri armati d’assalto, autoblindo, i tanks enormi, i sidecar, tiriamo un sospiro, forse è finita. Purtroppo siamo disinforma­ti, di militari italiani neanche l’ombra. Nel pomeriggio arrivano gli inglesi e subito occupano gli uffici del Comune, ordinano a mio padre di issare l’Union Jack - i tedeschi la loro bandiera se la sono portata via - e quando è ora di presentano a mangiare. Ordinano alla cuoca e cameriera - mia madre - un pranzo come si deve ma non hanno altri alimentari che pane cassetta e zucchero. Mamma deve ammazzare due conigli e comincia a temere per le galline, unico sostentame­nto per il bambino, con le uova; e il latte quando Corrado va a prenderlo da Arturo, a Camerano. Due, tre giorni di inglesi, poi un passaggio di scozzesi che rubano ogni cibo e mangiano con i piedi sul tavolo e mia madre li ucciderebb­e con piacere. Poi tornano i tedeschi. Sono in meno, e stanchi, ma gli alleati non sono riusciti a piegarli, anzi, si parla di scontri sanguinosi lì vicino. Siamo in tre ragazzini, giochiamo a calcio con una palla di gomma che ogni tanto scappa e c’è sempre un soldato che ce la restituisc­e, con l’aria di chi pensa a casa, magari a un fratellino biondo che corre come me. La sera, poi, che pena quella musica suonata con l’armonica a bocca e qualcuno che canta Lili Marlene. Non sembrano proprio quei cattivi tedeschi che la radio racconta. A proposito, Corrado ascolta anche cose di calcio che succedono da qualche parte, forse al Sud dove dicono che la guerra è un’altra cosa, dove sono arrivati anche i marocchini, i mongoli, gli indiani, ma il Sud in verità è più in giù, questi sono in Ciociaria, ci racconta un commercian­te che scappa, e vedrete...

Dopo due giorni sono da noi e all’improvviso comincia la fase cruciale. Si battaglia a pochi chilometri da Poggio Berni, poi il cielo si riempie di aerei: Spitfire, caccia inglesi con il solo pilota, spiega Corrado che a quindici anni sa già tutto di guerra. Ancora qualche giorno di scaramucce poi tornano i tedeschi con gli armamenti da terra mentre in cielo compaiono i loro Messerschm­itt e di lì a poco la prima battaglia aerea, mentre la sirena suona per chiamarci nel rifugio, una grotta sotterrane­a da un angolo della quale si può vedere cosa succede in cielo. Esplosioni, mitraglie e prima uno poi un altro, due aerei che cadono girandosi su se stessi. Adesso è chiaro che gli americani sono vicini, cominciano a cadere sul paese le prime bombe, i tedeschi se ne vanno inseguiti dagli alleati, lasciano camionette e moto senza carburante, sono incattivit­i, si sentono sconfitti, sparano a quel che vedono, e noi nel rifugio ormai senza nulla da mangiare, solo la piadina che mia madre sa fare ma la farina sta finendo, Corrado macina coi sassi la cicerchia con la cui polvere si fa anche il caffè. Gli ultimi bombardame­nti alleati sono spaventosi. Rinchiusi nella grotta ci prende anche una paura prima sconosciut­a. Anzi, è terrore. Ancora un giorno poi vengo preso da convulsion­i, mi sbatto come epilettico, mia madre è forte, sa che probabilme­nte è una indigestio­ne, mi aiuta come può, smetto di scalciare, mi addormento.

Sono arrivati gli americani, un dottore mi dà una medicina, un soldato nero mi dà da mangiare una carne rosa come il palmo della sua mano: l’ho scritto un’altra volta e un fesso mi ha dato del razzista e invece quel soldato alto e forte è il ricordo più bello che ho di quel finale di partita, di quella improvvisa pace con una montagna di rovine intorno e i generali americani vestiti come i soldati, ma pieni di stelle e il governator­e con il cappello rosso, e la bandiera a stelle e strisce che a me piace e per mia madre è la sconfitta decisiva. Il resto è la guerra civile, molto peggio, quegli altri - tedeschi, americani, russi bianchi, polacchi, indiani, gurka, scozzesi, inglesi, irlandesi - sono soldati. Esclusi i marocchini.

Ricordo Angiolino e mia madre che dice «ha fatto la guerra» per spiegare non la sua gamba gigia, ma la sua testa e un giorno mi ha chiamato per rimprovera­rmi perché in tivù mi aveva sentito dire «ho fatto la guerra». E l’ho fatta davvero, e nel punto peggiore, eppure la ricordo come ve l’ho raccontata. Senza paura.

Il Coronaviru­s è peggio, molto peggio. Non vedo il nemico lo sento - ma neanche gli alleati. Un incubo. Peggio delle bombe.

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 ??  ?? Ricordo Poggio Berni, in Romagna, vicino a Rimini dove ho trascorso la Seconda guerra mondiale dal 29 giugno 1944. Un giorno mi chiamò mia madre per rimprovera­rmi perché in tivù mi aveva sentito dire «Ho fatto la guerra». Ma l’ho fatta davvero, sulla Linea Gotica, eppure la ricordo come ve la racconto. Senza paura. Il Coronaviru­s è un incubo: il nemico non lo vedi, non lo senti. Uccide e basta
Ricordo Poggio Berni, in Romagna, vicino a Rimini dove ho trascorso la Seconda guerra mondiale dal 29 giugno 1944. Un giorno mi chiamò mia madre per rimprovera­rmi perché in tivù mi aveva sentito dire «Ho fatto la guerra». Ma l’ho fatta davvero, sulla Linea Gotica, eppure la ricordo come ve la racconto. Senza paura. Il Coronaviru­s è un incubo: il nemico non lo vedi, non lo senti. Uccide e basta
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