La memoria riattivata
Nessuno può sapere cosa accadrà da oggi, nessuno può prevedere i prossimi passi del cammino cominciato in Germania.
Nessuno può sapere cosa accadrà da oggi, nessuno può prevedere i prossimi passi del cammino cominciato ieri dal grande calcio europeo in cinque stadi della Germania: se scopriremo cioè nuovi giocatori contagiati dopo le partite oppure se non ci sarà alcun legame di causa-effetto tra la ripresa del campionato e la curva dell’infezione nel mondo chiuso della Bundesliga. Nessuno dispone di certezze in questa sfida a campo aperto che l’umanità sta giocando. Con l’illusione che basti rinchiudersi per vincerla. La sola cosa che sappiamo è che stamattina, al risveglio nella prima domenica di nuovo abitata dallo sport altre due partite nel pomeriggio in Germania, una corsa automobilistica e un’esibizione di golf negli Stati Uniti - possiamo per la prima volta vivere la sensazione che ci sia stato restituito un piccolo pezzetto di quelle centinaia di abitudini che il virus ci costringerà a cambiare.
Nel tornare a vedere per 90 minuti la corsa di un terzino, un assist, una parata, un tiro in porta, ieri c’è stata come una reimmersione in quel vecchio mondo di cui sentiamo complessivamente la mancanza. A questo servono gli odori e le vecchie canzoni, certe piccole pieghe dell’esistenza che di fronte ai grandi drammi della storia paiono irrilevanti. A questo compito s’è prestato il calcio, alla riattivazione di una memoria, alla riaccensione di un circuito rassicurante e consolatorio attraverso il riconoscimento di certi gesti che fanno parte del nostro patrimonio non solo culturale, quasi neurologico. Un gol, per esempio. Perfino un gol mangiato. Non è detto che in questa percezione chiara avvertita davanti alla tv ci sia qualcosa di scientifico, ma è da un secolo che Marcel Proust ce lo lascia credere.
Nel suo esperimento da laboratorio sotto lo sguardo di duecento paesi al mondo, il calcio tedesco ha provato a esagerare. Ha provato a farci credere che tutto fosse uguale a prima. Haaland che ha segnato come faceva fino a marzo, lo Schalke 04 che ha continuato a perdere come accade senza tregua da gennaio. Matheus Cunha, 20 anni, brasiliano dell’Hertha Berlino, si è pure spinto a esultare non con i gomiti, non da solo, ma nello stile del vecchio mondo, lasciandosi abbracciare dai compagni e mettendo il pollice in bocca, come se la parola più pronunciata nel calcio d’oggi non fosse: protocollo. Ci sono troppi elementi di scarto tra l’ipotesi di show rimesso in piedi ieri e quello originale: le tribune vuote, le riserve con le mascherine, a Lipsia finanche una scaletta d’aereo per consentire la discesa dalle tribune verso il campo ai sostituti. Eppure i gol non sono cambiati rispetto a quando eravamo più leggeri. Si segnano sempre allo stesso modo. È un pensiero buffo. È certamente una insignificante minuzia nella partita contro il virus. Ma è stata come una carezza. È stato come accorgersi all’improvviso di avere avuto la fortuna di essere tra i sopravvissuti.