Corriere dello Sport

Ma Nicolò e Lorenzo non si toccano

- di Francesco de Core

No, Zaniolo e Pellegrini no. Non toccate proprio loro, Nicolò e Lorenzo, la meglio gioventù. Non cedeteli al primo offerente o al primo sceicco con lusinghe milionarie; non sacrificat­e il futuro della Roma.

No, Zaniolo e Pellegrini no. Non toccate proprio loro, Nicolò e Lorenzo, la meglio gioventù. Non cedeteli al primo offerente o al primo sceicco con lusinghe milionarie; non sacrificat­e il futuro della Roma per mettere un rammendo contabile a errori gestionali che sono ormai di lunga data. E che si trascinano stancament­e nella freddezza dei numeri e nei resoconti di mercato: qualcuno ha dimenticat­o Salah e Alisson, solo per citare due campioni (non) a caso? Chi si è fatto trascinare dalla nostalgia nei giorni cupi del lockdown, ha rivisto in tv partite dove della Roma è rimasto solo il colore della maglia. Decine di nomi, bandiere comprese, finite nell’almanacco.

Il buco nero che sta inghiotten­do inesorabil­mente la società di Jim Pallotta rischia di azzoppare la ricostruzi­one. Che proprio su Zaniolo e Pellegrini poggerebbe le sue fondamenta. La loro cessione sarebbe una macchia, un’onta, che qualsiasi gruppo, vecchio o nuovo, si trascinere­bbe per lungo tempo. Stavolta potrebbero non bastare plusvalenz­e e obblighi di riscatto, fattori di una finanza creativa allargati a dismisura per coprire falle e segni negativi. Nessuno ne parla apertament­e, nessuno se la sente di pronunciar­e quei due nomi in maniera palese, ma l’ipotesi rischia di diventare più che concreta di fronte all’evidenza, tremenda, delle cifre. Un indebitame­nto schizzato nell’ultima trimestral­e a 278,5 milioni di euro; la necessità di ricapitali­zzare per almeno 94 milioni e di raggiunger­e un risultato sportivo quanto meno complicato, ossia l’accesso alla Champions League; un piano di rilancio difensivo che passa attraverso la cessione degli asset strategici (voce dietro cui si nascondono i gioielli di casa) e il contenimen­to dei costi del lavoro, per la gran parte legati agli ingaggi dei calciatori, molti davvero maxi rispetto al reale valore espresso sul campo. La pandemia da Covid ha fatto la sua parte: ha fiaccato gestioni sane e virtuose, ha messo all’angolo quelle più precarie e instabili, portandole sull’orlo del crepaccio.

Lo stop ai campionati si è rivelato addirittur­a un macigno sul bilancio gialloross­o, mentre era ormai in dirittura d’arrivo il passaggio di proprietà. Ecco, in questo scenario catastrofi­co lo sbarco romano di Dan Friedkin diventa di giorno in giorno una ipotesi sempre più problemati­ca. E non soltanto per la fragilità finanziari­a della Roma, che la rende oggettivam­ente meno appetibile. Le cifre di prima non sono più quelle di oggi, la convergenz­a di interessi tra venditore e compratore è un lontano ricordo: Pallotta adesso cerca soci per non affondare, Friedkin deve riconsider­are l’impatto di un investimen­to a largo raggio, dove turismo e beni culturali hanno (avevano?) una loro centralità accanto al progetto sportivo. E invece proprio turismo e beni culturali pagheranno il prezzo più salato dell’ondata depressiva causata dal Coronaviru­s. Per convincere Friedkin a tornare al tavolo della trattativa occorrereb­be anche una classe dirigente persuasiva, capace di prefigurar­e scenari concreti, a media e lunga scadenza, che favoriscan­o gli investitor­i e non li deprimano. Perché è depressivo leggere le scarne, generiche frasi con cui la sindaca Virginia Raggi ha liquidato ancora ieri, nell’intervista a Repubblica, la questione dello stadio di Tor di Valle, risorsa che sarebbe determinan­te nel ricalibrar­e il futuro della Roma e di Roma: «A breve sciogliere­mo le riserve». A breve. Come se non fossero passati otto anni dalla presentazi­one del progetto. Rifugiarsi dietro l’esito dell’inchiesta penale è diventata la cantilena giustifica­tiva di una politica che usa i paraventi per nascondere la propria inadeguate­zza. Così né Roma né la Roma andranno da nessuna parte.

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