IL RUGBY CAMBIA VOLTO
Addio ai tour (tranne i Lions) per far nascere una World League autunnale Ma il ricco Sei Nazioni non si tocca
È ai dettagli il progetto di un calendario globale, sempre più incentrato sull’alto livello Il via nel 2021
Giuseppe Tognetti è stato il capostipite dei giornalisti italiani di rugby. Bolognese, pioniere e cantore dei pionieri. Trentatrè anni fa, nella sua rubrica mensile sul “Mondo del Rugby”, commentò l’esito della prima edizione della Coppa del Mondo, in Nuova Zelanda, con un titolo che non ammetteva equivoci: «Il mio rugby è finito». «Dalla primavera di questo 1987 non avrà più molto senso rileggere o ricordare di minatori gallesi [...] Non farà più alcun effetto sapere che sul letto di morte il neozelandese Bob Deans giurò ai suoi nipoti che quella meta a Cardiff, nel 1905, l’aveva sicuramente segnata». E via così, rievocando un rugby romantico che stava scomparendo. Profetico. Da lì a poco sarebbe arrivato il professionismo, sarebbero scomparsi i tour vintage in cui il Llanelli poteva battere gli All Blacks, le partite epiche dei Barbarians di cui ancora si racconta nei pub, persino il Cinque Nazioni avrebbe aggiunto un posto a tavola.
Oggi i ritmi del rugby, frenetici come mai, sono dettati dalle esigenze commerciali, da sponsor e Tv. Si vola in Nuova Zelanda magari solo per una partita e i giocatori sono divisi in caste sempre più stagne: le superstar, gli “internazionali”, quelli da “provincia” o “franchigia”, quelli da campionato di club (tipo Top 12 nostrano). Più o meno bravi, più o meno pagati. Il mondo ovale va in quella direzione e l’ultima disfida elettorale tra l’inglese Bill Beaumont, 68 e l’argentino Agustin Pichot, 45 (occhio a origini ed età, dicono molto), si è giocata tutta su come andarci. Ha vinto Beaumont, grazie ai voti del Sei Nazioni (e quindi dell’Italia) perché la rivoluzione dell’ex mediano di mischia dei Pumas era troppo... rivoluzionaria per essere digerita da chi gestisce il Torneo più antico, affascinante e ricco del mondo. Il rugby però non sarà comunque più come prima, e in questo caso la pandemia non c’entra.
TRE VELOCITÀ. Sui tavoli delle Union di tutto il mondo negli ultimi giorni è planato il documento che cambierà per sempre faccia al movimento. Una stagione globale, tutta centrata sui grandi test-match. Quelli degli stadi strapieni e delle Tv che sgomitano per entrare. Un rugby a tre velocità. L’altissimo livello delle nazionali, l’alto livello dei grandi campionati (Premiership inglese, Top 14 francese, Pro 14 celtico, Super Rugby australe), la massa del rugby di base, che dovrebbe essere amatoriale ma in alcuni Paesi (non solo l’Italia) che fa fatica ad affrancarsi da un semiprofessionismo straccione. E’ di pochi giorni fa l’invito di Gareth Davies, presidente della Welsh Rugby Union, ai suoi club: «Smettetela di pagare i giocatori e tornate a uno status pienamente dilettantistico. Solo così potrete salvarvi». Perché in futuro i soldi di sponsor e Tv andranno sempre e solo verso l’alto. La stessa RFU inglese sta muovendosi in questa direzione.
TRENTASQUADRE. Ma veniamo alla rivoluzione dei calendari. I modelli sono due, se non tre. Cambiano i dettagli, ma la filosofia e i meccanismi sono delineati. L’emisfero Nord tenderà ad adeguarsi alle date dell’emisfero Sud: i grandi campionati scatteranno a dicembre o a gennaio per concludersi a luglio. Il Sei Nazioni oscillerà tra febbraio e aprile e potrebbe perdere una delle due settimane di break. Soprattutto, spariscono definitivamente i tour - tranne quello quadriennale dei Lions britannici, una miniera di soldi - per far poanni, sto a una sorta di World League, che si giocherà ogni due anni in autunno e inizialmente suddividerà le nazionali nelle varie Division (si arriva fino a sei, coinvolgendo 30 squadre Tier 1, 2 e 3) in base all’esito del Sei Nazioni e del Rugby Championship 2021. In autunno, due mesi di match tra i due emisferi stabiliranno classifiche, finali, spareggi promozione-retrocessione. E’ il progetto di Pichot, ma senza ledere l’integrità del Sei Nazioni. Ah, indovinate di chi è amico Stuart Barnes, autorevole commentatore del “Times” che vorrebbe cacciare l’Italia dal Sei Nazioni un giorno sì e l’altro pure? Vi aiutiamo: parla spagnolo. Infine concedete a chi scrive una citazione blasfema: anche il “mio” rugby sta per finire.
L’emisfero Nord si adeguerà al Sud: i grandi campionati partiranno in inverno