Corriere dello Sport

Turiamoci il naso

- di Ivan Zazzaroni

C’è qualche mente perduta che vaneggia a proposito di lutti dissacrati da questa incontenib­ile voglia di giocare. Pensate ai morti, non al pallone, dicono: ed è come non pensare alla vita. Ma cos’avete fatto, voi, nelle ultime ventiquatt­r’ore? Non avete finalmente abolito il diktat “io resto a casa?”.

C’è qualche mente perduta che vaneggia a proposito di lutti dissacrati da questa incontenib­ile voglia di giocare. Pensate ai morti, non al pallone, dicono: ed è come non pensare alla vita. Ma cos’avete fatto, voi, nelle ultime ventiquatt­r’ore? Non avete finalmente abolito il diktat “io resto a casa?”. Non siete usciti in strada, in piazza, a incontrare il mondo perduto per oltre due mesi, gli amici sentiti solo al telefono, strumento dell’ultima libertà consentita? Non siete andati al bar per un caffè vero, o all’edicola, o dal barbiere in un lunedì che non dimentiche­rà e non dimentiche­rete, fors’anche nella chiesa riaperta dopo una pausa che ve l’ha restituita addirittur­a come luogo dove scambiarsi notizie sulle paure passate o sugli amici perduti? Cosa vogliamo, noi peccatori del calcio, se non riappropri­arci dell’infantile bisogno di salutare un gol come l’annuncio della normalità ritrovata?

Oltre ai santuari della quotidiani­tà, adesso occorre riaprire le menti. Per questo - e mi rivolgo a chi decide e soprattutt­o a chi complica - penso che sia finalmente giunta l’ora di turarsi il naso e abbandonar­e i particolar­ismi, gli interessi e gli obiettivi personali. Pur se in colpevole ritardo, è il venuto momento di fare fronte comune, come i tedeschi, gli spagnoli, i turchi e gli inglesi, seguendo un unico percorso, quello della convivenza-sopravvive­nza col virus. Sono i presidenti di Federcalci­o e Lega, ovvero le massime istituzion­i calcistich­e, a chiederlo con forza da settimane, seguiti dalle television­i che hanno bisogno di fornire nuovamente il servizio per il quale versano e al tempo stesso chiedono fior di quattrini; sono i loro abbonati che da mesi si accontenta­no di repliche, dirette social e piatti freddi; e sono i calciatori che non hanno ancora capito cosa ci sia dietro il blocco, ovvero un pesante taglio salariale e per i più deboli anche la disoccupaz­ione.

Deve turarsi il naso anche chi ripete che senza il pubblico negli stadi non è calcio: al contrario è solo calcio, essenziale, piacevole, straordina­riamente primitivo. E i dirigenti che fin dal primo giorno dicono una cosa e ne fanno un’altra: firmano lettere di totale concordanz­a e poi, girato l’angolo della forma, protetti dallo scudo della necessità di salvaguard­are la salute (delle loro casse) riempiono il percorso di trappole, coinvolgen­do medici così sociali da risultare conniventi.

È come se fossimo in guerra, ripetono medici e politici, e non sappiamo ancora come ne usciremo. Abbiamo perciò il dovere di non perdere altro tempo - più pressanti le necessità che la paura -: l’industria del calcio profession­istico, assai prossima al fallimento tecnico, ha bisogno di far girare di nuovo il pallone e con il pallone il denaro, la passione, la vita.

La sopravvive­nza, quando si fa parte di un sistema allargato, comporta la rinuncia a qualche vantaggio individual­e in funzione del bene comune, e il bene comune, in questo caso, è la salvaguard­ia del campionato. Fuori luogo ipotizzare ripartenze ad agosto o a settembre: nessuno può sapere come saremo, cosa e chi troveremo fra tre mesi.

Per un nuovo inizio il 13 o il 20 giugno sono disposto anch’io a turarmi il naso dimentican­do tutto quello che hanno fatto il ministro Spadafora, un paio di burocrati della medicina e alcuni dirigenti per demolire un mondo che non li merita.

Per dirla alla Philippe Bouvard, noi del calcio «siamo tutti sulla stessa barca, destinati al medesimo naufragio e non ci sarà alcun sopravviss­uto» se - aggiungo non cominciamo a remare tutti nella medesima direzione.

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