Turiamoci il naso
C’è qualche mente perduta che vaneggia a proposito di lutti dissacrati da questa incontenibile voglia di giocare. Pensate ai morti, non al pallone, dicono: ed è come non pensare alla vita. Ma cos’avete fatto, voi, nelle ultime ventiquattr’ore? Non avete finalmente abolito il diktat “io resto a casa?”.
C’è qualche mente perduta che vaneggia a proposito di lutti dissacrati da questa incontenibile voglia di giocare. Pensate ai morti, non al pallone, dicono: ed è come non pensare alla vita. Ma cos’avete fatto, voi, nelle ultime ventiquattr’ore? Non avete finalmente abolito il diktat “io resto a casa?”. Non siete usciti in strada, in piazza, a incontrare il mondo perduto per oltre due mesi, gli amici sentiti solo al telefono, strumento dell’ultima libertà consentita? Non siete andati al bar per un caffè vero, o all’edicola, o dal barbiere in un lunedì che non dimenticherà e non dimenticherete, fors’anche nella chiesa riaperta dopo una pausa che ve l’ha restituita addirittura come luogo dove scambiarsi notizie sulle paure passate o sugli amici perduti? Cosa vogliamo, noi peccatori del calcio, se non riappropriarci dell’infantile bisogno di salutare un gol come l’annuncio della normalità ritrovata?
Oltre ai santuari della quotidianità, adesso occorre riaprire le menti. Per questo - e mi rivolgo a chi decide e soprattutto a chi complica - penso che sia finalmente giunta l’ora di turarsi il naso e abbandonare i particolarismi, gli interessi e gli obiettivi personali. Pur se in colpevole ritardo, è il venuto momento di fare fronte comune, come i tedeschi, gli spagnoli, i turchi e gli inglesi, seguendo un unico percorso, quello della convivenza-sopravvivenza col virus. Sono i presidenti di Federcalcio e Lega, ovvero le massime istituzioni calcistiche, a chiederlo con forza da settimane, seguiti dalle televisioni che hanno bisogno di fornire nuovamente il servizio per il quale versano e al tempo stesso chiedono fior di quattrini; sono i loro abbonati che da mesi si accontentano di repliche, dirette social e piatti freddi; e sono i calciatori che non hanno ancora capito cosa ci sia dietro il blocco, ovvero un pesante taglio salariale e per i più deboli anche la disoccupazione.
Deve turarsi il naso anche chi ripete che senza il pubblico negli stadi non è calcio: al contrario è solo calcio, essenziale, piacevole, straordinariamente primitivo. E i dirigenti che fin dal primo giorno dicono una cosa e ne fanno un’altra: firmano lettere di totale concordanza e poi, girato l’angolo della forma, protetti dallo scudo della necessità di salvaguardare la salute (delle loro casse) riempiono il percorso di trappole, coinvolgendo medici così sociali da risultare conniventi.
È come se fossimo in guerra, ripetono medici e politici, e non sappiamo ancora come ne usciremo. Abbiamo perciò il dovere di non perdere altro tempo - più pressanti le necessità che la paura -: l’industria del calcio professionistico, assai prossima al fallimento tecnico, ha bisogno di far girare di nuovo il pallone e con il pallone il denaro, la passione, la vita.
La sopravvivenza, quando si fa parte di un sistema allargato, comporta la rinuncia a qualche vantaggio individuale in funzione del bene comune, e il bene comune, in questo caso, è la salvaguardia del campionato. Fuori luogo ipotizzare ripartenze ad agosto o a settembre: nessuno può sapere come saremo, cosa e chi troveremo fra tre mesi.
Per un nuovo inizio il 13 o il 20 giugno sono disposto anch’io a turarmi il naso dimenticando tutto quello che hanno fatto il ministro Spadafora, un paio di burocrati della medicina e alcuni dirigenti per demolire un mondo che non li merita.
Per dirla alla Philippe Bouvard, noi del calcio «siamo tutti sulla stessa barca, destinati al medesimo naufragio e non ci sarà alcun sopravvissuto» se - aggiungo non cominciamo a remare tutti nella medesima direzione.