La montagna da scalare
Tutto si ferma perché tutto riparta, ma anche tutto riparte per fermarsi, in un groviglio gattopardesco di mosse e contromosse. La Figc prende atto che il Decreto Rilancio ha vietato ogni manifestazione sportiva fino al 14 giugno.
Tutto si ferma perché tutto riparta, ma anche tutto riparte per fermarsi, in un groviglio gattopardesco di mosse e contromosse. La Figc prende atto che il Decreto Rilancio ha vietato ogni manifestazione sportiva fino al 14 giugno, e quindi sospende la ripresa della serie A dal 13, affinché il governo ci ripensi. La Lega riscrive il protocollo per aggirare il divieto di assembramento e avviare gli allenamenti collettivi, ma l’incognita di un contagiato pesa ancora sul futuro del campionato. La curva epidemica premia il coraggio, le vittime del coronavirus scendono sotto le cento unità nel giorno in cui l’Italia riapre, ma il calcio resta il buco nero della sfida sanitaria alla pandemia e insieme il simbolo di una navigazione a vista.
C’è, nel tormentato risveglio dell’economia sportiva, la prova di quanto le armi messe in campo contro il virus abbiano finito per indirizzarsi contro il Paese. Nell’inestricabile complicazione di divieti, protocolli, prescrizioni ridicole, oltre che scientificamente incoerenti, c’è un parallelo con quella reazione autoimmune che la malattia ha scatenato in molte vittime, facendo sì che la morte non fosse causata dalla replicazione virale quanto dall’iperattività degli anticorpi. Il sistema istituzionale italiano ha reagito come un organismo le cui difese sono mal regolate e sprigionano tossine che infettano anche le parti buone. Così il paternalismo statalista, l’intransigenza moralistica, una certa dose di anarchico individualismo, da sempre parte del background del Paese, hanno eletto il calcio a capro espiatorio da purificare.
Questa idea è assai più diffusa di quanto si pensi e corre lungo tutta la lotta alla pandemia. Il calcio dei debiti opachi e degli ingaggi esagerati non ha dignità di fronte alla vita in pericolo, e non ha diritto di ascolto neanche quando il pericolo è cessato. Una degenerazione del senso comune è rimbalzata tra il Palazzo e la piazza in un gioco di specchi, tra un sondaggio del ministro Spadafora e un manifesto degli ultrà, nemici del calcio a porte chiuse perché disarmati del loro potere di ricatto. Così si è fortificata una resistenza antisportiva, trasversale alle élite e alimentata in parte anche dalle divisioni e dagli egoismi dei presidenti dei club.
Ora che l’Italia si riaccende, ora che il premier annuncia la riapertura di cinema e teatri con pubblico pagante dal 15 giugno, ora che la Bundesliga ci insegna che vuol dire riprendersi la normalità, trasformando un finale a porte chiuse in uno spettacolo televisivo di straordinario appeal anche per il pubblico italiano, ora che nessuna ragione plausibile giustificherebbe altri ritardi nel riavvio della serie A, il groviglio di quei pregiudizi e di quegli interessi occulti si para davanti alla ripresa come una montagna da scalare.
La strategia del presidente della Figc Gravina ha qualcosa di evangelico: porgere l’altra guancia, perché i nemici del calcio si trovino di fronte alle loro contraddizioni. Ma le sue prove di umiliazione non fanno scandalo di fronte a una burocrazia ottusa, che continua a orientare le scelte politiche. Così può accadere che si autorizzino allenamenti collettivi che di collettivo non hanno nulla: è cambiata solo la distanza tra gli atleti, passando da quattordici a due metri. Ma niente contrasti, niente dribbling, niente mischie, niente di tutto ciò che può preparare una vera ripartenza agonistica. Così può accadere, ancora, che un comitato tecnico scientifico, finalmente ma tardivamente delegittimato dal premier nelle scelte sul Paese, continui ad esercitare una supplenza politica rispetto alle istituzioni del calcio.
È lo stesso sinedrio di virologi che, per stabilire le forme di esercizio del culto di ciascuna fede religiosa, ha scritto decine di protocolli minuziosi che sono già carta straccia. I suoi niet burocratici da ieri mattina suonano come una brutta favola da mettere alle spalle. Per tutti, tranne che per il calcio. Dove l’autorità degli scienziati può ancora decidere come assegnare o piuttosto non assegnare lo scudetto. È ridicolo, e in parte grottesco. Come grottesco è un ministro che ha sfruttato tre mesi di pandemia per accreditarsi politicamente in un movimento diviso tra troppe anime e tenuto insieme unicamente dalla difesa della poltrona. Che questo equilibrio fragilissimo preoccupi il premier è un’evidenza ormai incontestabile. Che allo stesso equilibrio Conte possa sacrificare il calcio, per compiacere un ministro riottoso, è un’ipotesi che purtroppo non può stupirci.