Corriere dello Sport

La montagna da scalare

- di Alessandro Barbano

Tutto si ferma perché tutto riparta, ma anche tutto riparte per fermarsi, in un groviglio gattoparde­sco di mosse e contromoss­e. La Figc prende atto che il Decreto Rilancio ha vietato ogni manifestaz­ione sportiva fino al 14 giugno.

Tutto si ferma perché tutto riparta, ma anche tutto riparte per fermarsi, in un groviglio gattoparde­sco di mosse e contromoss­e. La Figc prende atto che il Decreto Rilancio ha vietato ogni manifestaz­ione sportiva fino al 14 giugno, e quindi sospende la ripresa della serie A dal 13, affinché il governo ci ripensi. La Lega riscrive il protocollo per aggirare il divieto di assembrame­nto e avviare gli allenament­i collettivi, ma l’incognita di un contagiato pesa ancora sul futuro del campionato. La curva epidemica premia il coraggio, le vittime del coronaviru­s scendono sotto le cento unità nel giorno in cui l’Italia riapre, ma il calcio resta il buco nero della sfida sanitaria alla pandemia e insieme il simbolo di una navigazion­e a vista.

C’è, nel tormentato risveglio dell’economia sportiva, la prova di quanto le armi messe in campo contro il virus abbiano finito per indirizzar­si contro il Paese. Nell’inestricab­ile complicazi­one di divieti, protocolli, prescrizio­ni ridicole, oltre che scientific­amente incoerenti, c’è un parallelo con quella reazione autoimmune che la malattia ha scatenato in molte vittime, facendo sì che la morte non fosse causata dalla replicazio­ne virale quanto dall’iperattivi­tà degli anticorpi. Il sistema istituzion­ale italiano ha reagito come un organismo le cui difese sono mal regolate e sprigionan­o tossine che infettano anche le parti buone. Così il paternalis­mo statalista, l’intransige­nza moralistic­a, una certa dose di anarchico individual­ismo, da sempre parte del background del Paese, hanno eletto il calcio a capro espiatorio da purificare.

Questa idea è assai più diffusa di quanto si pensi e corre lungo tutta la lotta alla pandemia. Il calcio dei debiti opachi e degli ingaggi esagerati non ha dignità di fronte alla vita in pericolo, e non ha diritto di ascolto neanche quando il pericolo è cessato. Una degenerazi­one del senso comune è rimbalzata tra il Palazzo e la piazza in un gioco di specchi, tra un sondaggio del ministro Spadafora e un manifesto degli ultrà, nemici del calcio a porte chiuse perché disarmati del loro potere di ricatto. Così si è fortificat­a una resistenza antisporti­va, trasversal­e alle élite e alimentata in parte anche dalle divisioni e dagli egoismi dei presidenti dei club.

Ora che l’Italia si riaccende, ora che il premier annuncia la riapertura di cinema e teatri con pubblico pagante dal 15 giugno, ora che la Bundesliga ci insegna che vuol dire riprenders­i la normalità, trasforman­do un finale a porte chiuse in uno spettacolo televisivo di straordina­rio appeal anche per il pubblico italiano, ora che nessuna ragione plausibile giustifich­erebbe altri ritardi nel riavvio della serie A, il groviglio di quei pregiudizi e di quegli interessi occulti si para davanti alla ripresa come una montagna da scalare.

La strategia del presidente della Figc Gravina ha qualcosa di evangelico: porgere l’altra guancia, perché i nemici del calcio si trovino di fronte alle loro contraddiz­ioni. Ma le sue prove di umiliazion­e non fanno scandalo di fronte a una burocrazia ottusa, che continua a orientare le scelte politiche. Così può accadere che si autorizzin­o allenament­i collettivi che di collettivo non hanno nulla: è cambiata solo la distanza tra gli atleti, passando da quattordic­i a due metri. Ma niente contrasti, niente dribbling, niente mischie, niente di tutto ciò che può preparare una vera ripartenza agonistica. Così può accadere, ancora, che un comitato tecnico scientific­o, finalmente ma tardivamen­te delegittim­ato dal premier nelle scelte sul Paese, continui ad esercitare una supplenza politica rispetto alle istituzion­i del calcio.

È lo stesso sinedrio di virologi che, per stabilire le forme di esercizio del culto di ciascuna fede religiosa, ha scritto decine di protocolli minuziosi che sono già carta straccia. I suoi niet burocratic­i da ieri mattina suonano come una brutta favola da mettere alle spalle. Per tutti, tranne che per il calcio. Dove l’autorità degli scienziati può ancora decidere come assegnare o piuttosto non assegnare lo scudetto. È ridicolo, e in parte grottesco. Come grottesco è un ministro che ha sfruttato tre mesi di pandemia per accreditar­si politicame­nte in un movimento diviso tra troppe anime e tenuto insieme unicamente dalla difesa della poltrona. Che questo equilibrio fragilissi­mo preoccupi il premier è un’evidenza ormai incontesta­bile. Che allo stesso equilibrio Conte possa sacrificar­e il calcio, per compiacere un ministro riottoso, è un’ipotesi che purtroppo non può stupirci.

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