«SAPUTO, INVESTI! ORA IL BOLOGNA PUÒ SPRINTARE»
Consorte: «Strategia perfetta finora. Senza mai cedere i talenti e con la crisi si possono cogliere occasioni per accelerare la crescita»
Salvò il Bologna dal fallimento, poi si defilò. Era il 2010. Altri tempi, altre crisi. Giovanni Consorte, lei che è uomo di conti e numeri, che l’economia la legge con competenza, da questa crisi Joey Saputo può trarre vantaggio?
«E’ un momento particolare, questo senza alcun dubbio. Ora possono anche capitare buone occasioni, situazioni da prendere al volo, e questo permetterebbe di accelerare i tempi per portare la squadra più in alto di quello che il club ha previsto. Ora non è il tempo di vendere i giocatori che un giorno diventeranno dei campioni, per esempio. Già si sentono voci, ma quelle fanno parte del calcio. Discorsi così, tanto per farli. Io credo che Saputo e l’ad del club, Fenucci, sappiano come gestire una squadra».
L’idea dello stadio da sistemare è sostenibile o non più?
«Certo che sì. Se va avanti il programma che la proprietà e il management hanno in testa lo stadio Dall’Ara e il suo restyling sono imprescindibili. Devono farlo. Quello stadio è da meraviglia, gli stadi inglesi non sono migliori di quelli di Bologna. Va sistemato, e anche rapidamente».
Che idea si è fatto di Saputo? Lo ha incontrato?
«Mai avuto rapporti. Ma ho letto e sentito dichiarazioni equilibrate, intelligenti. Da uomo che conosce le cose e che se ne interessa. Ha detto: mi faccio un programma, rafforzo la squadra, nel giro di qualche tempo porto la squadra a livello buono. Tutto giusto. Dovrebbe continuare a tenere questo tipo di strategia anche in questo momento così delicato e così difficile».
E con questa crisi come la mettiamo? Il covid ha stravolto tutto, rischia di fare tabula rasa.
«I danni sono enormi. A tutti i livelli. Nell’economia e anche nello sport. Il calcio è un grande spettacolo, ma è anche una grande industria, che coinvolge migliaia di persone, che fa girare molti ingranaggi anche del sistema economico. Se si ferma lo spettacolo si ferma tutto. Il calcio deve assolutamente riprendere».
Effettivamente la ripartenza è più reale, adesso. O è solo un miraggio?
«Ripartire è decisivo, e bisogna farlo il prima possibile. La Figc sta lavorando bene, Gravina è bravo. Ma poi i problemi sono tanti, me ne rendo conto. Per esempio, i giocatori. Quelli sono un patrimonio importante che va salvaguardato. Ci sono aspetti medici, psicologici, da tenere in considerazione. Nemmeno loro possono vivere nell’incertezza. E poi il calcio non è solo la serie A. C’è la B, la C, ci sono le squadre dilettanti. Non si può far finta di nulla, bisogna guardare a tutti gli aspetti e gestirli al meglio».
Avrebbe accelerato i tempi per la ripartenza?
«Un periodo di tempo per organizzare le cose ci vuole, diciamo almeno dieci, quindici giorni in cui i giocatori si allenano in gruppo, si rimettono in moto. Perché anche l’infortunio rischia di essere un danno enorme in questo momento. La politica non può pensare di lavorare nel modo in cui ha lavorato fin qui, con decine di gruppi di lavoro, scienziati, medici specializzati, e poi nascondersi dietro a questi gruppi, agli esperti, per ogni decisione. Non è questo lo schema, non può essere questo. L’assunzione di responsabilità è fondamentale in ogni cosa che si fa».
Il Cies, l’Osservatorio del calcio ha detto che se la stagione non dovesse finire il valore dei giocatori calerebbe del 28%. Che mercato sarà?
«Bisogna capire se è un fattore contingente o stabile. Ma io credo che una volta ripreso il campionato, se i giocatori tornano in forma e il calcio torna a essere un argomento d’interesse, questa perdita di valore non sarà durevole. Altrimenti scatteranno altri meccanismi. Anche perché il 30% per qualunque azienda è un massacro».
Che contratti è meglio fare ai calciatori?
«Intanto la prima cosa è mantenere i contratti in essere. Se dirigessi un club, aspetterei tutto il 2020 e i primi sei mesi del 2021 prima di fare dei rinnovi».
E con le tv come la mettiamo? «Le tv sono troppo strutturate con lo spettacolo del calcio e dello sport, che è al centro della loro attività. Non possono cambiare questo tipo di taglio. I temi forti sono tre: arte e spettacolo, politica e ovviamente lo sport. Eliminare uno di questi tre piedi non si può fare da un giorno all’altro».
La crisi quanto può durare?
«Un paio d’anni ci vorranno. Ci sono settori che potrebbero recuperare prima. Soprattutto quello dei servizi, come il turismo, se trova accordi può fare grandi cose. Poi ci sono settori come quello metalmeccanico, chimico o industriale che bisogna comprendere in maniera più profonda. Il calcio in un paio d’anni può uscire dalla crisi. Dal punto di vista dello spettacolo, se non ci sono ricadute, può uscirne anche prima. Dal punto di vista economico, finanziario e patrimoniale bisogna vedere come si comportano le forze di governo».
Si amplierà il divario tra i grandi club e piccoli?
«Il pericolo è che possano arrivare contributi solo per le grandi, quelle che fanno spettacolo e però le squadre minori, con meno spettatori possono ulteriormente indebolirsi. Bisognerebbe aiutarle nella stabilizzazione. Gli strumenti economici ci sono».
Questa situazione favorirà la creazione della Superlega? «Adesso non è il tempo di farlo. Troppe norme da mettere insieme, troppe teste, troppe diversità tra Paesi. Si capirà qualcosa fra un anno».
Il calcio non può cavarsela senza aiuti dal governo o dall’Ue? «Può farcela, ma deve rileggere il sistema con il quale opera. Il calcio è arrivato a un certo stadio e se non riceve gli aiuti per tenere a questo livello - con i debiti, perché ci sono anche quelli - i club devono ridimensionare la loro attività. E’ una scelta di fondo. Ma credo che l’aiuto vada dato al calcio come agli altri settori, in fondo rappresenta una parte rilevante del pil. E poi c’è un’altra questione».
Quale?
«L’Italia dovrebbe cominciare a essere protagonista nel proporre metodologie. Mi ha colpito la Francia: dieci giorni fa hanno riaperto le scuole, poi è nata una fase di crisi e le hanno richiuse. Ci vuole flessibilità, altrimenti è impossibile gestire una crisi così complicata».
In Germania sono già partiti. Lei che idea si è fatto?
«Sono un po’ più malizioso. Riuscire a parlare di calcio permette anche di riportare la gente in tv, è un argomento talmente importante e sentito che è l’occasione per raccontare altre cose, per fare altri discorsi, avere diverse visibilità. Parlare però non serve. La politica dovrebbe trovare i soldi per le aziende e per la gente».
Questo vuol dire che il calcio diventerà un altro tipo di azienda? «No, questo no. Ma la logica che hanno club come Real Madrid e Barcellona, squadre che sono vere e proprie polisportive, con i tifosi che sono anche soci, può essere una soluzione. Un azionariato popolare, insomma. Io l’avevo già sostenuto tempo fa. Era troppo presto. Adesso può essere una strada che verrà perseguita. Ormai i canali sono due: fondi americani e fondi cinesi. Mi auguro, spero che il mondo del calcio non diventi di proprietà della Cina».
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