Dopo il ko con il Bologna, il club pensa al futuro: Emerson, Vidal e Dzeko i possibili colpi
Marotta si conferma un abile tattico, dice che le quattro sconfitte sono troppe per il blasone dell’Inter e poche per il suo progetto di crescita, dice cioè tutto e il contrario di tutto. Quindi niente. Conte invece conferma di non essere un allenatore tattico, né in campo né davanti ai microfoni. Ogni volta che perde, tira fuori un sassolino dalla scarpa, scaricando la responsabilità sugli altri. Con una costruzione retorica di questo tipo: «La responsabilità è mia, però...». Un però c’è sempre. Anche l’altra sera. Sentitelo: «È il primo anno che lavoro con l’Inter - dice - e ho preso un pacchetto preconfezionato, con tante situazioni da migliorare».
Ma è davvero così? Davvero la campagna acquisti estiva, e poi quella invernale, sono state subite dal tecnico leccese? Chiunque ha seguito la genesi della nuova Inter, firmata Marotta-Conte, sa che non è così. Lukaku, Sensi, Barella, Sanchez, Lazaro, Biraghi e Bastoni sono tutti acquisti e conferme che il tecnico ha preteso o avallato. Non ne parliamo degli arrivi di gennaio: Young e Moses sono stati espressamente richiesti da lui. Quanto a Eriksen, non è una sua scelta, ma una scelta della società che Conte ha autorizzato.
E allora? Che senso ha parlare di pacchetto preconfezionato? Per spiegare questa frase non basta la sua tentazione di scrollarsi di dosso il peso delle sconfitte. Occorre riferirsi all’ideologia che ispira tutto il suo lavoro. Conte è da sempre uno di quegli allenatori che vorrebbe plasmare l’intero capitale umano della squadra, secondo criteri di consonanza sportiva con i suoi schemi tattici e le sue idee di gioco, e di affidabilità personale con il suo modello etico. Per questo ha scartato Perisic, inidoneo al suo 3-5-2, e ha rifiutato Icardi e Nainggolan, giudicati poco governabili. Tutti giocatori che, di fronte alle voragini tecniche e tattiche apertesi sul cammino di un campionato difficile, sarebbero stati per lui una manna dal cielo.
Però ha ottenuto una campagna acquisti da 180 milioni di euro, più i bonus. E scusate se è poco. La società lo ha assecondato in tutte le sue pretese, i suoi veti e anche i suoi vezzi e le sue ripicche, come quella di lasciare per mesi fuori dalla Pinetina i giornalisti che osano criticarlo. Lo ha fatto nella convinzione di sposare in toto una strategia vincente. Conte è ancora un vincente. Da Bari fino al Chelsea, passando per Siena e per la Juve, dovunque è andato ha sempre vinto. L’idea di Marotta è stata quella di pensare che l’innesto di un tecnico caratterialmente forte bastasse a far lievitare il tasso di fiducia di un gruppo di atleti di grande qualità, ancorché in gran parte in debito di vittorie.
Non è stata una ricostruzione, e neanche un buon restauro. È stata una rifondazione, costata cara al gruppo Suning, che solo a Conte ha pagato quest’anno dieci milioni di euro netti, e nei prossimi due anni ne pagherà ventiquattro. Ma non ha fin qui funzionato. A otto settimane dal termine l’Inter è al quarto posto con 64 punti. Se anche supererà i 72 e i 69 delle due stagioni di Spalletti, non sarà un risultato di cui gloriarsi. Soprattutto se dovesse finire il campionato dietro la Lazio, l’Atalanta, o tutte e due le squadre che sono il simbolo di una virtuosa gestione delle risorse sportive e finanziarie. C’è ancora l’Europa League per salvare la faccia e restituire a questa stagione il ruolo di un possibile trampolino verso risultati migliori.
Comunque vada, c’è un punto dove il teorema di Marotta e Conte rischia di rivelarsi fallace, come ogni opera dell’uomo ispirata da un pensiero ideologico, destinato a scontrarsi con la realtà. Il successo non è un’opera di ingegneria. Ma ha un’equazione più complessa, che tiene conto delle energie espressamente attivate e di quelle che trovate sul campo, della disponibilità a mettersi in gioco e a trasformare i propri schemi mentali, della voglia di investire e di evolvere. Il successo non si replica, ma si inventa in uno spazio sempre nuovo di intuito e di ragione.
Per questo spaventano le indiscrezioni su una rivoluzione, che seguirebbe alla rifondazione incompiuta. Le rivoluzioni pretendono di bruciare i tempi, ma hanno costi esagerati e avanzamenti apparenti, a cui seguono arretramenti uguali e contrari. E soprattutto le rivoluzioni non sono attrezzate per la gestione degli imprevisti. Per spiegare con un esempio: se parte Lautaro, non basta sostituirlo con Dzeko, per essere sicuri di vincere. Marotta, che lo sa, stavolta lo spieghi a Conte. E non si faccia convincere.