Morricone, la musica della nostra vita
Addio al compositore, sue le colonne sonore di capolavori del cinema: aveva 91 anni «Funerali privati, non voglio disturbare»
«Niente funerali. Non voglio disturbare…». Strano tipo, Ennio Morricone, un impasto mai del tutto decifrato di ruvidezza e di tenerezza, di senso pratico e di accensioni liriche. Se l’è scritto da sé il suo epitaffio per non scomodare nessuno, quando ha capito che il suo femore spezzato era l’antefatto delle sue ore contate e che, da lì a poco, sarebbe diventato tutto ciò per cui valeva la pena vivere e più che mai morire. «Se in origine eravamo dei suoni, mi pare bello pensare che torneremo ad esserlo», aveva detto in una delle sue ultime interviste.
Se ne va definitivamente in musica all’alba del 6 luglio, lo stesso giorno di Goffredo Mameli e di Maria Goretti, altre due icone della virtù italica. Dieci anni dopo Mario Monicelli, che di anni ne aveva quattro di più, novantacinque, ma che di Ennio condivideva la visione lucida, serena e insieme spietata della vita. L’ineluttabilità dell’addio. Il dover abbandonare le cose che ci abbandonano. Quando fu il momento, Mario si lasciò scivolare dal balcone della sua stanza d’ospedale, al quinto piano, senza un gemito. Ennio si limitò a scrivere in anticipo il suo epitaffio, stringendo a sé tutti i suoi affetti in un unico abbraccio fisico e ideale. Se i due hanno segretamente pianto, nessuno lo saprà mai.
Uomo spartano nella parola, essenziale nelle azioni, ma onnivoro e insaziabile esploratore di suoni e architetto di contaminazioni. Musicista enciclopedico, nessuno scaffale potrà mai contenerlo. Più di cinquecento colonne sonore firmate e nemmeno lui sapeva quante composizioni nel suo incessante divagare tra musica “pesante” e “leggera”. Uno degli ultimi italiani più famosi al mondo. Vita privata, quel poco che restava, briciole, mondanità zero. L’unica debolezza, la passione per la sua Roma. Il ricordo nitido della sua prima volta a Testaccio, in piedi dietro la porta di Guido Masetti. Insieme all’Olimpico a delirare calcio con Sergio Leone, altro sfrenato lupacchiotto. La sua devozione per Paulo Roberto Falcao. La tentazione a stento frenata di genuflettersi al suo cospetto, simile in questo a quell’altro genio rimasto bambino di Carmelo Bene. L’orgoglio della sua musica scelta per straziare i cuori il giorno dell’addio di Francesco Totti. Amava parlare di calcio e non nascondeva la vanità di mostrarsi competente. Suo, nel ’78, l’inno per i mondiali in Argentina, El mundial, il primo senza un testo.
Nato a Trastevere da una famiglia povera in canna, unico salario molto precario quello del padre che suonava la tromba quando capitava nei locali notturni, jazz e musica da ballo, per sbarcare il lunario e lui, Ennio, pischello, che gli va dietro fedele e innamorato, pronto a sostituirlo quando si ammala. Nasce lì, in quegli anni di formazione e di miseria, di passione e di necessità, il Morricone bifronte, il ragazzo e poi l’uomo che metteranno insieme nello stesso Ennio l’ossessione per la musica e la voluttà del denaro. Il suo genio diventa il suo mestiere. Per un po’ il pudore lo spinge a occultare le sue incursioni tra le canzonette, i suoi peccati clandestini. Voleva far soldi e restare nell’ombra, ma poi capisce in fretta che un genio se ne frega di giustificare a se stesso e al mondo le sue scelte. Anche perché diventò subito mainstream alla Rca, esaltando i Gino Paoli e gli Edoardo Vianello, tenendo a battesimo lattanti improbabili come Gianni Morandi e Rita Pavone.
Pochi sanno che Morricone rischiò seriamente di fare la fine del compositore colto alla Stockhausen, prima d’inventarsi autore di canzonette e poi dello “spaghetti sound”, il genere che in coppia con Sergio Leone lo fece conoscere al mondo, dentro partiture spericolate dove si combinavano avanguardismi, afflati latini, abissi melò, cupezze, malinconie, sfregiate da suoni allucinati al confine del paranoide. Studia tromba e composizione a Santa Cecilia, omaggio al padre e alla propria passione, smodata almeno quanto la sua ambizione. Prima di finire alla scuola di Goffredo Petrassi e sbavare per John Cage, l’alieno sbarcato da Los Angeles, già guadagnandosi al tempo nel suo allora ancora sottosuolo il pane e anche il companatico con le canzonette. Morricone non ha mai avuto, musicalmente parlando, la puzza sotto il naso. Non si è mai fatto scrupoli nel cercare e trovare sintesi mirabili tra il colto e il popolare, come quando compone Il barattolo per Gianni Meccia e inserisce, alla John Cage, il suono di un vero barattolo fatto rotolare sulla vera ghiaia. La prima volta che un “volgare” rumore della vita di tutti i giorni contamina le asettiche stanze del pop italiano. Commistione che, una volta lui libero di sentirsi Morricone e gli altri di chiamarlo “maestro”, arrivò poi a spiegare e a teorizzare.
Sarà anche per questo, per questa sua leggerezza degenerata, che Quentin Tarantino se ne uscì con quel “è più grande di Mozart”, riferito a Morricone, quando a Hollywood ritirò per suo conto l’Oscar per The Hateful Eight. Che suonò come una lieve esagerazione, per qualcuno forse una bestemmia, ma non certo nella testa di Quentin. Del resto, a proposito di precocità, era proprio Morricone a raccontare l’origine dello “spaghetti sound”, lui a sei anni che ascolta rapito il Franco Cacciatore, l’opera di Carl Maria von Weber.
Genio anche nella ostentata noncuranza e facilità di scrittura. Me lo confermava Maurizio Costanzo, raccontandomi di una delle sue rare esperienze di paroliere. «L’unico precedente di cui mi vanto parecchio è Se telefonando, scritto nel 1966, insieme a Ghigo de Chiara con le musiche di Ennio Morricone. La canzone nasce così: stavamo a casa di de Chiara, Ennio continuava a telefonare dettandoci al telefono il motivetto, che poi era la sirena della polizia di Marsiglia. Ci mettemmo poco tempo a scrivere il testo, ancora meno Morricone ad adattarlo». Nacque così Se telefonando, un capolavoro di nemmeno tre minuti per la voce di Mina, tre note, senza ritornello. «Credo di averlo composto mentre pagavo la bolletta del gas», racconta il Maestro di Trastevere, che nel frattempo a meno di quarant’anni era diventato il re Mida della musica italiana, con quella sua faccia un po’ così, molto qualunque, e già un irriconoscibile mutante tra la musica pesante e leggera, avanguardista illeggibile e totem della canzonetta, avendo già sbaragliato al cinema la concorrenza dei Nino Rota e dei Piero Piccioni.
Fu nel 1964, Per un pugno di dollari, l’anno in cui Morricone diventa Morricone. Lui e Sergio Leone si conoscevano da bambini, cresciuti entrambi a Trastevere, ma Leone diffida del musicista. Non lo convince. Morricone lo porta a sé facendogli ascoltare un suo quasi psichedelico arrangiamento di una vecchia ballata di Arlo Guthrie, una roba molto sfacciata che fece breccia nel ruvido ma in fondo tenero cuore del regista. Sta di fatto che tre note, sempre tre note, tre strumenti, l’armonica a bocca, la tromba e il fischio bastarono per fissare una volta per sempre il prima e il dopo del western all’italiana, la ditta Leone-Morricone che soppianta Fellini-Rota. La tromba dell’immen
Nato povero, figlio di un trombettista Ha firmato più di 500 colonne sonore
Sergio Leone lo fece conoscere al mondo Condividevano il tifo per la Roma
“Se telefonando” nata... al telefono Tarantino disse: Più grande di Mozart
so Michele Lacerenza non ha mai più finito di scorticarti tu che l’ascolti ancora oggi. In omaggio al suo cognome, Lacerenza piangeva e suonava, portando dal boccaglio alla luce, tutto il genio del Sud, le tristezze indicibili, i fiati che crepano la terra e le anime, il grido che nasce dalla pietra e dal deserto, verso un destino che è sempre lo stesso, di qua la resa dei conti, di là la morte. Succede allora e sempre di più a seguire che le musiche da film di Morricone s’imposero nei juke box di tutto il mondo, da Tokyo e New
York, nei mercatini dove i suoi album si vendevano insieme al poncho stile Clint Eastwood.
La musica di Morricone segna il confine tra due mondi distinti. Smette di essere un accompagnamento, trasformandosi in un personaggio, talvolta nel protagonista vero del film stesso. Il Maestro è stato, è e sarà tante cose. Lo trovi ovunque, al cinema e negli stadi, insieme a Mahler e a Puccini, ai matrimoni, ai funerali e alle cerimonie di addio, nelle sale d’attese e a bordo degli aerei, lo trovi nei concerti dei Metallica e negli omaggi di Bruce Springsteen. Ma, se devo scegliere il mio Morricone, non ho dubbi La tromba, l’armonica, il fischio. Insieme al vento che soffia nel deserto. Delle cose che stanno per accadere, degli agguati nei saloon o tra le rocce, delle mani nervose, delle pistole che fondono nelle fondine. L’immanenza della carneficina. E la malinconia della fine a cui seguirà un nuovo inizio.