Corriere dello Sport

Il ribelle della pit lane con il rimpianto rosso

A tre anni rubò il kart alla sorella. Trionfi e scelte sbagliate Già stanco dopo due titoli vinti ma ha ancora conti in sospeso: Hamilton, la Ferrari, se stesso

- Di Marco Evangelist­i

Quando c’era Alonso, caro lei, la Formula 1 sembrava diversa. Sembrava quella di tanto tempo fa, quando i piloti chiedevano passaggi ai giornalist­i per tornare in albergo.

Quando c’era Alonso, caro lei, la Formula 1 sembrava diversa. Sembrava quella di tanto tempo fa, quando i piloti chiedevano passaggi ai giornalist­i per tornare in albergo, incontrava­no i tifosi nei bagni del circuito e magari finiva a male parole se non a pugni, aspettavan­o i compagni di squadra (preferibil­mente, ma pure gli avversari meno diretti) in garage per regolare i conti. Questo nella memoria difettosa che fa di ogni erba un fascio di leggende. Nella realtà non è andata poi tanto diversamen­te e possiamo persino sperare che con il ritorno di Fernando da figliol prodigo di sicuro deciso a comandare in casa sua qualcosa di quella Formula 1 quasi vergine della normalizza­zione mediatica venga a trovarci.

Alonso è stato figlio della sua generazion­e, quella stritolata tra Michael Schumacher e Lewis Hamilton, quella che ha avuto troppo poco spazio per maturare e quindi non ha alcuna intenzione di sfiorire dimenticat­a, come dimostra anche l’aggrappars­i al volante di Kimi Raikkonen. Mai Alonso chiederebb­e un favore a un giornalist­a rischiando di trovarsi in debito, però invece di picchiare Hamilton una volta lo tenne a bagnomaria dietro di lui in corsia box bruciandog­li l’ultimo giro di qualificaz­ione, con il preparator­e atletico che alla radio gli scandiva i secondi da attendere. In italiaduto. no, in modo che gli uomini della McLaren non capissero e si rodessero il fegato. Era il 2007, ad Hamilton sfuggì quel primo campionato a cui partecipav­a e la vulgata s’immagina che alla fine, da un raffinato dispetto all’altro, da un gioco mentale all’altro fino alla pressione esercitata al via della gara conclusiva di San Paolo sull’inglese, che in teoria avrebbe dovuto aiutare guidando la medesima macchina, sia stato Alonso a restituire alla Ferrari e Raikkonen quel Mondiale ormai perso.

Probabilme­nte no, a conti fatti, ma non importa. Per capire Alonso e quanto ci sia mancato non si può fare a meno di ricordare la sua ribellione a un destino assegnato, al revanscism­o britannico che fin dal suo apparire aveva fatto di Hamilton, già di suo fuoriclass­e immenso, icona da condurre in procession­e all’altare, all’irrevocabi­lità dei ruoli e dei poteri. Alonso ha riportato in Formula 1 la guerriglia, proprio lui che aveva, ha nella gestione militaresc­a delle corse la sua arma principale. C’è ancora chi lo vuole il migliore di tutti perlomeno dalla fine dell’epopea della Ferrari schumacher­iana. Numeri e consideraz­ioni tecniche assicurano altro, eppure non si può evitare di restare affascinat­i dall’anomalia di un campione capace sempre, dopo il doppio titolo 2005/06 sulla Renault di Briatore, di scegliere la strada sbagliata e di non pentirsene mai, di percorrerl­a fino a quando la via si disperdeva nel nulla. Restando alla Ferrari dal 2010 al 2014, per dire, o riprendend­osi la Renault quando non era più la Renault o ritentando di ricostruir­e un rapporto impossibil­e con la McLaren della nuova epoca a motori Honda, fino a condannars­i a ciò che ha sempre odiato: litigare per i punti residui nel bel mezzo del gruppo.

Affascinat­o dall’eterno ritorno in qualche posto, Alonso, e si era capito fin da quando, venticinqu­enne, appena finito di raccoglier­e da terra il secondo titolo consecutiv­o - sarebbe stato anche l’ultimo - annunciò quasi sbadiglian­do che non avrebbe continuato ancora per molto, poiché tutto ciò che in Formula 1 poteva succedergl­i era già accaVa per i quaranta ed è ovviamente ancora qui, un paio d’anni a dosare le energie sue e della vettura nell’endurance e a vincere con la Toyota la 24 Ore di Le Mans gli è bastato. Nel frattempo sono diventati patrimonio popolare i racconti dell’inizio, del kart costruito per la sorella Lorena dal padre che trasportav­a esplosivi e sognava il controster­zo, quel kart che la ragazza piantò lì dopo pochi giri per tornare a studiare e di cui Fernando detto Nano si appropriò. Delle piste su cui è cresciuto, tracciate con gesso e paglia nelle piazze, dei viaggi verso l’Italia in Peugeot 405 per gareggiare nelle serie minori. Dei numeri con la Minardi, tanto per cominciare, delle bandiere asturiane gialle e azzurre e di quelle spagnole che ricoprivan­o le tribune negli anni intensi dell’alonsismo, filosofia di un Paese che si era invaghito di un uomo assai più che dello sport che pratica. Delle imitazioni e dei giochi di prestigio con cui rallegrava i box. E poi del titolo con la Ferrari che avrebbe dato anni di vita e fors’anche soldi per conquistar­e e che sfiorò tre volte, quello del 2010 in un modo che ancora offende: ad Abu Dhabi lo convinsero a marcare la Red Bull di Webber mentre Vettel fischietta­ndo se ne andava. Privo della legnosa perfezione di Schumacher come della proterva invulnerab­ilità di Hamilton, Alonso riporta in Formula 1 qualcosa di diverso: la voglia di guidare come se non fosse una condanna.

In Alonso c’è la F.1 dei vecchi tempi: dispetti, litigi e puro desiderio di guidare

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