Il ribelle della pit lane con il rimpianto rosso
A tre anni rubò il kart alla sorella. Trionfi e scelte sbagliate Già stanco dopo due titoli vinti ma ha ancora conti in sospeso: Hamilton, la Ferrari, se stesso
Quando c’era Alonso, caro lei, la Formula 1 sembrava diversa. Sembrava quella di tanto tempo fa, quando i piloti chiedevano passaggi ai giornalisti per tornare in albergo.
Quando c’era Alonso, caro lei, la Formula 1 sembrava diversa. Sembrava quella di tanto tempo fa, quando i piloti chiedevano passaggi ai giornalisti per tornare in albergo, incontravano i tifosi nei bagni del circuito e magari finiva a male parole se non a pugni, aspettavano i compagni di squadra (preferibilmente, ma pure gli avversari meno diretti) in garage per regolare i conti. Questo nella memoria difettosa che fa di ogni erba un fascio di leggende. Nella realtà non è andata poi tanto diversamente e possiamo persino sperare che con il ritorno di Fernando da figliol prodigo di sicuro deciso a comandare in casa sua qualcosa di quella Formula 1 quasi vergine della normalizzazione mediatica venga a trovarci.
Alonso è stato figlio della sua generazione, quella stritolata tra Michael Schumacher e Lewis Hamilton, quella che ha avuto troppo poco spazio per maturare e quindi non ha alcuna intenzione di sfiorire dimenticata, come dimostra anche l’aggrapparsi al volante di Kimi Raikkonen. Mai Alonso chiederebbe un favore a un giornalista rischiando di trovarsi in debito, però invece di picchiare Hamilton una volta lo tenne a bagnomaria dietro di lui in corsia box bruciandogli l’ultimo giro di qualificazione, con il preparatore atletico che alla radio gli scandiva i secondi da attendere. In italiaduto. no, in modo che gli uomini della McLaren non capissero e si rodessero il fegato. Era il 2007, ad Hamilton sfuggì quel primo campionato a cui partecipava e la vulgata s’immagina che alla fine, da un raffinato dispetto all’altro, da un gioco mentale all’altro fino alla pressione esercitata al via della gara conclusiva di San Paolo sull’inglese, che in teoria avrebbe dovuto aiutare guidando la medesima macchina, sia stato Alonso a restituire alla Ferrari e Raikkonen quel Mondiale ormai perso.
Probabilmente no, a conti fatti, ma non importa. Per capire Alonso e quanto ci sia mancato non si può fare a meno di ricordare la sua ribellione a un destino assegnato, al revanscismo britannico che fin dal suo apparire aveva fatto di Hamilton, già di suo fuoriclasse immenso, icona da condurre in processione all’altare, all’irrevocabilità dei ruoli e dei poteri. Alonso ha riportato in Formula 1 la guerriglia, proprio lui che aveva, ha nella gestione militaresca delle corse la sua arma principale. C’è ancora chi lo vuole il migliore di tutti perlomeno dalla fine dell’epopea della Ferrari schumacheriana. Numeri e considerazioni tecniche assicurano altro, eppure non si può evitare di restare affascinati dall’anomalia di un campione capace sempre, dopo il doppio titolo 2005/06 sulla Renault di Briatore, di scegliere la strada sbagliata e di non pentirsene mai, di percorrerla fino a quando la via si disperdeva nel nulla. Restando alla Ferrari dal 2010 al 2014, per dire, o riprendendosi la Renault quando non era più la Renault o ritentando di ricostruire un rapporto impossibile con la McLaren della nuova epoca a motori Honda, fino a condannarsi a ciò che ha sempre odiato: litigare per i punti residui nel bel mezzo del gruppo.
Affascinato dall’eterno ritorno in qualche posto, Alonso, e si era capito fin da quando, venticinquenne, appena finito di raccogliere da terra il secondo titolo consecutivo - sarebbe stato anche l’ultimo - annunciò quasi sbadigliando che non avrebbe continuato ancora per molto, poiché tutto ciò che in Formula 1 poteva succedergli era già accaVa per i quaranta ed è ovviamente ancora qui, un paio d’anni a dosare le energie sue e della vettura nell’endurance e a vincere con la Toyota la 24 Ore di Le Mans gli è bastato. Nel frattempo sono diventati patrimonio popolare i racconti dell’inizio, del kart costruito per la sorella Lorena dal padre che trasportava esplosivi e sognava il controsterzo, quel kart che la ragazza piantò lì dopo pochi giri per tornare a studiare e di cui Fernando detto Nano si appropriò. Delle piste su cui è cresciuto, tracciate con gesso e paglia nelle piazze, dei viaggi verso l’Italia in Peugeot 405 per gareggiare nelle serie minori. Dei numeri con la Minardi, tanto per cominciare, delle bandiere asturiane gialle e azzurre e di quelle spagnole che ricoprivano le tribune negli anni intensi dell’alonsismo, filosofia di un Paese che si era invaghito di un uomo assai più che dello sport che pratica. Delle imitazioni e dei giochi di prestigio con cui rallegrava i box. E poi del titolo con la Ferrari che avrebbe dato anni di vita e fors’anche soldi per conquistare e che sfiorò tre volte, quello del 2010 in un modo che ancora offende: ad Abu Dhabi lo convinsero a marcare la Red Bull di Webber mentre Vettel fischiettando se ne andava. Privo della legnosa perfezione di Schumacher come della proterva invulnerabilità di Hamilton, Alonso riporta in Formula 1 qualcosa di diverso: la voglia di guidare come se non fosse una condanna.
In Alonso c’è la F.1 dei vecchi tempi: dispetti, litigi e puro desiderio di guidare