TORNIAMO A BERLINO
La Coppa del Mondo conquistata in Germania ha lasciato un’eredità evidente: gli eroi di allora sono quasi tutti protagonisti anche adesso Il 9 luglio 2006 si chiudeva una delle avventure più esaltanti del nostro calcio: analizziamo origini ed effetti
ABerlino abbiamo alzato la Coppa, ma il Mondiale lo abbiamo vinto a Dortmund. Indimenticabile quella notte, sotto il muro bianco e muto del Westafalenstadion. Loro zitti, noi impazziti. Alla fine avevano in faccia un pallore identico a quello delle loro maglie. Dobbiamo ammettere che i tedeschi si comportarono da veri sportivi, con civiltà. Sguardi bassi e tristi, ma non c’era rabbia, non c’era livore. Semmai rassegnazione. Del resto quello che avevano visto sul loro campo non era altro che la ripetizione di quanto accade ogni volta che Italia e Germania si incontrano per qualcosa che poi resterà nella storia. Il 2-0 di Dortmund nell’immaginario del tifoso italiano arriva dopo il 4-3 di Città del Messico e il 3-1 di Madrid, ma le prime due batoste, quando siamo diventati il loro trauma storico-calcistico, erano in campo neutro, stavolta li avevamo sfondati in terra amica. Per loro dev’essere insopportabile. Per noi lo sarebbe, diciamoci la verità.
Mancavano sei giorni alla finale di Berlino, avevamo giocato i supplementari contro la Germania, anche se la Francia aveva un giorno in meno per recuperare. Quella era la fase decisiva, lo sapevano tutti: il recupero. Eravamo stanchi, ma in buone condizioni. E soprattutto avevamo un gruppo che sapeva come comportarsi. Di questo parleremo più avanti. La finale fu una partita stanca, movimentata solo dai due gol nei primi 90 minuti e soprattutto dalla testata di Zidane a Materazzi. Fu un lento, inesorabile trascinamento verso i rigori. Stavamo dentro un rigore tattico che era stata la nostra principale caratteristica. Gli azzurri giocavano legati l’uno con gli altri con un fil di ferro. Gli spazi destinati a ciascun giocatore venivano rispettati, non c’era nessuno fuori posto. Sapevamo che sotto questo aspetto i francesi erano inferiori.
IL FUTURO DELLE SCELTE. Abbiamo vinto quel Mondiale per il gruppo. Gli anni successivi hanno dimostrato che le scelte di Marcello Lippi non erano basate solo sul piano tecnico, ma anche e soprattutto su quello umano. Di Germania 2006 resta la certezza che ogni componente di quella fantastica spedizione era una persona speciale. L’eredità non potrà mai superare l’esplosione del trionfo, ma stabilisce correttamente quanto sia stato intelligente e profondo il lavoro del commissario tecnico. Aveva visto nei suoi ragazzi il futuro immediato e quello più lontano. Lippi sapeva che stava allenando dei futuri allenatori, gente che avrebbe raccolto la sfida della panchina, proseguendo sulla linea del ct.
Per rendere chiara l’idea, prendiamo i 23 delle due nazionali della finale. I francesi: Landreau, Boumsong, Abidal, Vieira, Gallas, Makelele, Malouda, Dhorasoo, Govou, Zidane, Wiltord, Henry, Silvestre, Saha, Thuram, Barthez, Givet, Diarra, Sagnol, Trezeguet, Chimbonda, Ribery e Coupet. Finita la carriera in campo, solo per pochi è iniziata quella in panchina. Zidane ha vinto tutto col Real Madrid, Henry è stato vice ct del Belgio, Vieira allena il Nizza, Sagnol è stato allenatore della Under 21 fracese e assistente di Ancelotti al Bayern e Makelele lavora nel settore giovanile del Chelsea.
Prendiamo invece i nostri 23: Buffon, Zaccardo, Grosso, De Rossi, Cannavaro, Barzagli, Del Piero, Gattuso, Toni, Totti, Gilardino, Peruzzi, Nesta, Amelia, Iaquinta, Camoranesi, Barone, Filippo Inzaghi, Zambrotta, Perrotta, Pirlo, Oddo e Materazzi. Sono pochi quelli fuori dal giro, sono tanti quelli seduti in panchina: Grosso ha allenato quest’anno il Brescia in A, De Rossi ha appena lasciato il campo e sta per iniziare la sua nuova avventura da tecnico, Barzagli ha fatto parte dello staff di Sarri ma sulla sua carriera da allenatore ci si può scommettere, Cannavaro ha vinto il campionato cinese alla guida del Guangzhou Evergrande, Gattuso ha cominciato dal basso e ora ha appena vinto la Coppa Italia col Napoli dopo aver lasciato il Milan in Europa League, Zambrotta ha cominciato col Chiasso e poi ha provato in Cina, Gilardino è in C, Nesta in B col Frosinone e sta lottando per la promozione in A, Camoranesi da gennaio è sulla panchina del Tabor Sezana nel campionato sloveno, Filippo Inzaghi ha appena realizzato un capolavoro a Benevento portando la squadra in A con un bel po’ di record, Pirlo inizierà con la Under 23 della Juventus, Oddo ha già allenato in Serie A col Pescara e l’Udinese.
E poi, con tutto il rispetto per il francese, vuoi mettere Lippi con Domenech? La storia di Lippi con quella di Domenech? Ecco di che pasta era fatta quella Nazionale, era la sintesi di teste da calcio, di gente nata per questo sport. Il valore delle scelte di Lippi è emerso subito, il giorno di Berlino e quello di Dortmund, ma quanto abbiano significato per il calcio italiano lo si è capito nei quattordici anni successivi.
Il 2006 è stato l’ultimo anno di grandezza della Nazionale. Negli Europei e nei Mondiali successivi non abbiamo avuto fortuna (nel 2008, per esempio, abbiamo dato il via all’epopea della Spagna perdendo solo ai rigori), ma soprattutto non abbiamo più recuperato il livello di quella squadra, di quel gruppo. Ci siamo avvicinati un po’ nell’Europeo 2012 con Prandelli, quando siamo diventati vice campioni d’Europa. Ai Mondiali, invece, solo disastri, in Sudafrica nel 2010, in Brasile nel 2014, in Russia nel 2018 quando non ci siamo neppure qualificati.
LA CHIMICA AZZURRA. Quell’anno avevamo tutto per vincere il Mondiale e lo abbiamo vinto. Avevamo la convinzione e la condizione, avevamo la qualità e la quantità, avevamo la tecnica (di Pirlo, di Totti, per quel poco che ha potuto mostrare, di Del Piero) e la forza (di Gattuso, di Perrotta). Avevamo la difesa più forte del Mondiale e del mondo, avevamo il portiere più forte del pianeta, unico superstite che a 42 anni non ha intenzione di smettere. Avevamo il prossimo Pallone d’Oro, la Scarpa d’Oro di quell’anno (Luca Toni) e di quello successivo (Francesco Totti). Quando ci pensiamo oggi, ci prende male. Oggi ci consoliamo con giovani che in fretta, troppo in fretta, consideriamo campioni solo perché ne abbiamo bisogno, perché abbiamo l’urgenza della rinascita. Forse la Nazionale di Lippi è irripetibile,
L’impresa si rivelò un forte volano anche per i club E Buffon, ancora oggi in campo, è il simbolo di una squadra che poteva schierare tanti fuoriclasse
come lo è stata quella di Valcareggi nel ‘68 e quella di Bearzot nell’‘82. Non è un caso se i giocatori (ma potremmo dire gli uomini) che formavano quelle squadre continuano ad essere i veri riferimenti per chi ama il calcio.
LA SCIA MONDIALE. L’effetto del 2006 sul calcio italiano è stato prodigioso. I nostri club hanno continuato a imporsi in Europa nei quattro anni successivi, il Milan ha trionfato in Champions nel 2007 e l’Inter ha realizzato il triplete nel 2010. Anche se i club, gonfi come sono di giocatori straordinari, non potranno mai rappresentare il calcio italiano nella sua essenza (ruolo che può ricoprire solo la Nazionale), non c’è dubbio che l’ottimismo che si respirava intorno al nostro calcio in quel periodo è evaporato negli anni successivi. Ci sentivamo forti, fieri di quel trionfo e di tutto quello che si portò dietro. Quattro anni prima ci aveva rubato il Mondiale quel manigoldo di Byron Moreno, anche in Giappone e Corea, col Trap in panchina, avevamo una grande Nazionale. Lippi e i suoi ragazzi restituirono all’Italia tutto quello che le era stato vigliaccamente tolto nella scandalosa partita contro la Corea del Sud. Era una rivincita enorme. E giusta. E definitiva.
Nell’aula magna di Coverciano campeggiano le foto dei nostri ct in trionfo: Pozzo, Valcareggi, Bearzot, Lippi, ciascuno di loro ha dato al calcio italiano quanto la storia chiedeva. Marcello è stato l’ultimo di questa splendida serie e ogni volta che torniamo a quattordici anni fa, lo rivediamo ancora mentre si aggiusta gli occhiali sul naso, strapazzato da Gattuso, sballottato dai suoi ragazzi, emozionato più di un bambino. Che magìa quella sera.