Il commendator Mela d’oro
Il grande Cesena è nato a Stadio negli anni Sessanta. In Serie C - ero titolare della rubrica parlavo ogni giorno con Renato Lucchi, l’uomo di fiducia del Conte Rognoni, fondatore e proprietario del club, che dava notizie in esclusiva a me e ai corrispondenti Dionigio Dionigi e Ettore Pasini. Renato - con il quale mi divertii anni dopo quando andò a allenare il Verona di Garonzi - mi fece sapere che il Conte aveva venduto il Cesena ai signori della frutta capeggiati da Dino Manuzzi. Corsi a Cesena, ebbi un solo rapido contatto con il nuovo presidente e fu ancora Lucchi a illuminarmi: Manuzzi aveva un progetto straordinario per finanziare il nuovo Cesena: lui è i suoi compari si impegnavano a mettere una... tassa di cinque lire su ogni cassetta di frutta - soprattutto mele - venduta all’estero. Il traguardo? Milioni. La Serie A. Tornai a Stadio volando. Andai subito a riferire a Chierici e Bardelli che educatamente mi ascoltarono...senza emozionarsi.
Entrai nella redazione calcio e feci l’annuncio ai colleghi. Lamberto Albertazzi sciolse l’imbarazzo: “Clamoroso annuncio del commendator Mela”. E tutti a ridere. Era il 1964, nel ‘68 il Cesena era in B, nel ‘73 in Serie A. Nel ‘76 in Coppa Uefa. Nella raccolta delle figurine bianconere ce n’è una che non cambia, Giampiero Ceccarelli, da esordiente a capitano di lungo corso. Ma il
mago era lui, Dino Manuzzi, il commendator Mela d’Oro, il costruttore di un‘impresa romagnola - lavoro, lavoro, lavoro - non di un miracolo. (Anch’io mi definisco calvinista). E solidarietà, amicizia, generosità, ospitalità rappresentate dall’emblema locale, la caveja , la “sicurezza” del giogo dei buoi con gli anelli che lanciano il loro suono argentino dai campi alla casa.
Dalla C alla Coppa Uefa, dicevo. E a metà settembre del ‘76 si va a Magdeburgo, nella Germania comunista, a giocare con la classica squadra “ostica” di quelle parti, un bel complesso nobilitato dalla presenza di Jurgen Sparwasser che avevo visto nel ‘74 a Amburgo segnare il gol decisivo per l’Est nel derby Mondiale fra le due Germanie. Brera lo ribattezzò Bevilacqua. Dino Manuzzi m’invitò alla storica trasferta, in redazione nessuno osò protestare, quello era il ”mio” Cesena. Entrammo allo Stadio a braccetto fra due file di tedeschi che gridavano “scheisse” e ridevano, Manuzzi li salutava e non sapeva che gridavano “merda”. Il 15 settembre, a Magdeburgo, prendemmo tre gnocchi, pazienza; peccato, invece, perché al ritorno alla Fiorita vincemmo 3 a 1 e scoprimmo che avremmo potuto batterli, i tognini.
Già, la Fiorita. Il Cesena era divertente come il suo stadio, una modesta casa del calcio edificata fra i binari della ferrovia e i frutteti. Il treno entrava ogni tanto in partita e si vedeva gente ai finestrini godersi un attimo di insolito spettacolo. Un tifoso matto durante il match correva lungo la rete, avanti e indietro, gridando come un ossesso. In tribuna d’onore bella gente rumorosa. E belle donne. Una, vistosissima, ci accompagnò a lungo. Uno di noi, bolognese, disse di averla conquistata. Uno di noi, cesenate, gli disse: “Che impresa! I la ciamen la Sita...La toj so’ tott “. Fatevi tradurre.