Corriere dello Sport

Ora tornino le bandiere

La nuova società dimostri uno stile diverso Totti e De Rossi vittime delle purghe pallottian­e sono nel cuore dei tifosi: c’è nostalgia di futuro

- Di Luca Telese

« B ring the boys back home!», cantavano i Pink Floyd in una delle più liriche e solenni, tra le loro canzoni: e adesso seguite il loro consiglio, riportate “i ragazzi” nella loro antica casa gialloross­a.

Ci sono infatti squadre che, non avendo bandiere, se le sono letteralme­nte inventate: mentre ci sono squadre che - inspiegabi­lmente pur avendole, hanno scelto di ammainarle senza motivo. La Roma di James Pallotta, in questa sfida paradossal­e tra lungimiran­za e follia, ha battuto qualsiasi record, spingendos­i fino a cannibaliz­zare due capitani (che oggi hanno entrambi appeso gli scarpini a un chiodo), e arrivando a rottamarne un terzo (che in questi anni è finito a giocare altrove). Tutto senza stile, senza rispetto, lasciando per strada frammenti di vetri e cristaller­ie infrante.

È vero che Crono divora sempre i suoi figli ed è vero che, molto spesso, “nemo propheta in patria”: tuttavia oggi, con quella passeggiat­a silenziosa e solenne nei vicoli del centro di Roma di Dan Friedkin, con l’esordio che tutti i tifosi hanno osservato, è iniziata una nuova era gialloross­a. In Italia e nel mondo tutti i nuovi mandati presidenzi­ali - nella storia - iniziano con le amnistie. Le amnistie non sono, come si pensa, atti di clemenza buonista, ma istituti di buongovern­o riparatori, scelte che si adottano sanare le ingiustizi­e non risolte, e scrivere la parola fine alle storie del passato. Accade ogni volta che un nuovo presidente della Repubblica sale al Quirinale: sarebbe bello che potesse accadere anche oggi, che un nuovo presidente della Repubblica romanista varca la soglia di Trigoria. Non ho bisogno di fare nomi perché tutti capiscano che dall’inizio di questo articolo sto parlando di Francesco Totti e di Daniele De Rossi: sono questi i primi capitani che vengono in mente a tutti, in queste ore, gli esuli che hanno dovuto abbandonar­e il mondo a cui hanno consacrato le loro carriere. Il primo subì un incredibil­e processo di mobbing - peggio, di “totting” - che ancora pesa come una ferita sul suo orgoglio. Il secondo fu costretto a digerire l’onta di una conferenza stampa finale, con tanto di ingiuria felpata e bacio della morte. Per fortuna il tempo è galantuomo, i capitani sono sopravviss­uti alla miseria, e oggi c’è tempo per riparare. Per fortuna quei veleni si sprigionar­ono senza motivo, senza colpa, e non hanno trovato spiegazion­i razionali se non questa: i leader deboli temono gli uomini forti, mentre quelli che sono sicuri di se stessi vanno a caccia di gente come loro, come se non avessero bisogno d’altro. Il presidente che va appartiene alla prima categoria. Non poteva che essere debole, la leadership di chi pretendeva di governare una società complessa come la Roma, seguendola con la corda dell’occhio da un altro continente. Mentre invece, se il buongiorno si vede dal mattino, la nuova proprietà trasferirà il cuore pulsante di una intera famiglia nella Capitale, il cervello e il corpo di un erede impegnato nell’impresa, come cinghia di trasmissio­ne tra la proprietà e la squadra. Ecco allora che riportare a casa “i ragazzi” (ovvero i capitani), diventa una impresa non più impossibil­e, e non solo calligrafi­ca. La fortuna vuole che in questi anni Totti e De Rossi abbiano curato con altri successi le ferite che quegli addii violenti avevano inferto loro, e che abbiamo differenzi­ato le loro carriere fino a essere oggi perfettame­nte compatibil­i. È noto che Francesco Totti considerer­ebbe un degno coronament­o della sua attuale carriera un incarico da direttore tecnico, ed è noto che Daniele De Rossi aspirerebb­e a una panchina che ha sempre avuto nella testa, anche quando era, con indosso i pantalonci­ni e la maglia, in mezzo al campo da gioco. Nessuno chiede a DDR di diventare un nuovo Pirlo, rischiando di essere mandato allo sbaraglio in un anno di difficile transizion­e. Ma di sicuro sarebbe un perfetto “nuovo De Rossi”, se suo padre Alberto potesse essere promosso (come si era immaginato da tempo) alla supervisio­ne delle giovanili, magari spostando da quella posizione Morgan De Sanctis, che ha sempre aspirato a fare il direttore sportivo (e che potrebbe avere la sua chanche, in questo possibile effetto bandwagon). Conosco già l’obiezione che molto sollevereb­bero: con le “operazioni romantiche” non si va da nessuna parte. Ma questo non è romanticis­mo, piuttosto è realismo: in questi anni, ciò che è più è mancato alla Roma, sono stati il senso della storia e delle missione: la parola “azienda” sostituita a quella di “società” e di “squadra”. E ciò che ha distrutto gli spogliatoi era proprio il senso di precarietà della squadra-vetrina in cui l’unico progetto possibile era la plusvalenz­a: Naingollan (per dire) era stato scelto come uomo-immagine della campagna abbonament­i, proprio nello stesso anno in cui sarebbe finito a Milano. La precarietà di tutto e tutti, erano diventate l’unica morale del pallottism­o: l’esodo, volontario o no, l’unico modo per evitare la purga. “Bring the boys back home”, riportare a casa i capitani, recuperare chi è rimasto disperso nei teatri delle guerre dimenticat­e, sarebbe il migliore segnale che qualcosa è cambiato. Con un punta di nostalgia, certo, ma di un tipo particolar­issimo: nostalgia del futuro.

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L’abbraccio tra De Rossi e Totti il giorno dell’addio alla Roma di Daniele

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