Ora tornino le bandiere
La nuova società dimostri uno stile diverso Totti e De Rossi vittime delle purghe pallottiane sono nel cuore dei tifosi: c’è nostalgia di futuro
« B ring the boys back home!», cantavano i Pink Floyd in una delle più liriche e solenni, tra le loro canzoni: e adesso seguite il loro consiglio, riportate “i ragazzi” nella loro antica casa giallorossa.
Ci sono infatti squadre che, non avendo bandiere, se le sono letteralmente inventate: mentre ci sono squadre che - inspiegabilmente pur avendole, hanno scelto di ammainarle senza motivo. La Roma di James Pallotta, in questa sfida paradossale tra lungimiranza e follia, ha battuto qualsiasi record, spingendosi fino a cannibalizzare due capitani (che oggi hanno entrambi appeso gli scarpini a un chiodo), e arrivando a rottamarne un terzo (che in questi anni è finito a giocare altrove). Tutto senza stile, senza rispetto, lasciando per strada frammenti di vetri e cristallerie infrante.
È vero che Crono divora sempre i suoi figli ed è vero che, molto spesso, “nemo propheta in patria”: tuttavia oggi, con quella passeggiata silenziosa e solenne nei vicoli del centro di Roma di Dan Friedkin, con l’esordio che tutti i tifosi hanno osservato, è iniziata una nuova era giallorossa. In Italia e nel mondo tutti i nuovi mandati presidenziali - nella storia - iniziano con le amnistie. Le amnistie non sono, come si pensa, atti di clemenza buonista, ma istituti di buongoverno riparatori, scelte che si adottano sanare le ingiustizie non risolte, e scrivere la parola fine alle storie del passato. Accade ogni volta che un nuovo presidente della Repubblica sale al Quirinale: sarebbe bello che potesse accadere anche oggi, che un nuovo presidente della Repubblica romanista varca la soglia di Trigoria. Non ho bisogno di fare nomi perché tutti capiscano che dall’inizio di questo articolo sto parlando di Francesco Totti e di Daniele De Rossi: sono questi i primi capitani che vengono in mente a tutti, in queste ore, gli esuli che hanno dovuto abbandonare il mondo a cui hanno consacrato le loro carriere. Il primo subì un incredibile processo di mobbing - peggio, di “totting” - che ancora pesa come una ferita sul suo orgoglio. Il secondo fu costretto a digerire l’onta di una conferenza stampa finale, con tanto di ingiuria felpata e bacio della morte. Per fortuna il tempo è galantuomo, i capitani sono sopravvissuti alla miseria, e oggi c’è tempo per riparare. Per fortuna quei veleni si sprigionarono senza motivo, senza colpa, e non hanno trovato spiegazioni razionali se non questa: i leader deboli temono gli uomini forti, mentre quelli che sono sicuri di se stessi vanno a caccia di gente come loro, come se non avessero bisogno d’altro. Il presidente che va appartiene alla prima categoria. Non poteva che essere debole, la leadership di chi pretendeva di governare una società complessa come la Roma, seguendola con la corda dell’occhio da un altro continente. Mentre invece, se il buongiorno si vede dal mattino, la nuova proprietà trasferirà il cuore pulsante di una intera famiglia nella Capitale, il cervello e il corpo di un erede impegnato nell’impresa, come cinghia di trasmissione tra la proprietà e la squadra. Ecco allora che riportare a casa “i ragazzi” (ovvero i capitani), diventa una impresa non più impossibile, e non solo calligrafica. La fortuna vuole che in questi anni Totti e De Rossi abbiano curato con altri successi le ferite che quegli addii violenti avevano inferto loro, e che abbiamo differenziato le loro carriere fino a essere oggi perfettamente compatibili. È noto che Francesco Totti considererebbe un degno coronamento della sua attuale carriera un incarico da direttore tecnico, ed è noto che Daniele De Rossi aspirerebbe a una panchina che ha sempre avuto nella testa, anche quando era, con indosso i pantaloncini e la maglia, in mezzo al campo da gioco. Nessuno chiede a DDR di diventare un nuovo Pirlo, rischiando di essere mandato allo sbaraglio in un anno di difficile transizione. Ma di sicuro sarebbe un perfetto “nuovo De Rossi”, se suo padre Alberto potesse essere promosso (come si era immaginato da tempo) alla supervisione delle giovanili, magari spostando da quella posizione Morgan De Sanctis, che ha sempre aspirato a fare il direttore sportivo (e che potrebbe avere la sua chanche, in questo possibile effetto bandwagon). Conosco già l’obiezione che molto solleverebbero: con le “operazioni romantiche” non si va da nessuna parte. Ma questo non è romanticismo, piuttosto è realismo: in questi anni, ciò che è più è mancato alla Roma, sono stati il senso della storia e delle missione: la parola “azienda” sostituita a quella di “società” e di “squadra”. E ciò che ha distrutto gli spogliatoi era proprio il senso di precarietà della squadra-vetrina in cui l’unico progetto possibile era la plusvalenza: Naingollan (per dire) era stato scelto come uomo-immagine della campagna abbonamenti, proprio nello stesso anno in cui sarebbe finito a Milano. La precarietà di tutto e tutti, erano diventate l’unica morale del pallottismo: l’esodo, volontario o no, l’unico modo per evitare la purga. “Bring the boys back home”, riportare a casa i capitani, recuperare chi è rimasto disperso nei teatri delle guerre dimenticate, sarebbe il migliore segnale che qualcosa è cambiato. Con un punta di nostalgia, certo, ma di un tipo particolarissimo: nostalgia del futuro.