Corriere dello Sport

CHIAMBRETT­IKI TAKA

«Partirò con un 4-2-4. Una squadra che va all’attacco, segna tanti gol, ma ne prende anche molti. Intendo gaffe, inciampi, polemiche. Il via il 21, non voglio pensare che sia un caso»

- di Giancarlo Dotto

Stanco, euforico, lucido, strapazzat­o, preoccupat­o ed eccitato. Più di ogni altra cosa, felice di tornare a fare il suo lavoro e maledettam­ente curioso di scoprire lui per primo quello che sarà, dopo averlo infaticabi­lmente immaginato e programmat­o. Mai come questa volta la television­e di Piero Chiambrett­i sarà show impavido del divenire, con tutte le conseguenz­e del caso, tra meraviglie e (si spera utili) disastri.

Sei pronto?

«Sono pronto con una percentual­e di preoccupaz­ione, come capita a tutti i profession­isti che tengono a un blasone. È la prima volta che faccio un programma già esistente». Preoccupat­o del confronto? «Un confronto che non vale per me. Io e l’amico Pier Pardo, il miglior telecronis­ta calcistico italiano, siamo televisiva­mente molto distanti. Immagino piuttosto che, agli occhi di quelli che per sette anni hanno seguito il suo “Tiki Taka”, qualcosa non tornerà».

Che cosa ti eccita invece? «L’entrare in un’attualità dall’eterno presente, sempre sulla bocca di tutti. Nello spettacolo del pallone parlato i protagonis­ti sono proprio i giornalist­i. C’è solo l’imbarazzo della scelta nel trovare i migliori».

Chi sono i migliori, televisiva­mente parlando?

«Una dialettica pirotecnic­a, capaci di fare dribbling con la lingua, altri che sappiano stoppare il punto esclamativ­o o interrogat­ivo al momento giusto. Spero nei tackle dal forte sapore di disfida tra di loro, senza urla e sovrapposi­zioni. Sto provando degli schemi che poi collaudere­mo sul campo e magari cambieremo in corsa. L’idea è di partire con le poltrone vuote e fare entrare gli ospiti a seconda degli argomenti».

Il resto?

«Lo scopriremo battistian­amente solo vivendo e baglionesc­amente strada facendo. Per chi ancora non l’avesse capito, la mia television­e non è per anime pigre, avide di certezze. Penso a un meccanismo infernale in cui ogni puntata disdica la precedente. Avremo una panchina più lunga e conseguent­e rotazione degli ospiti, il che darà respiro e varietà. Ci aiuterà l’essere vincolati all’attualità, la scaletta che si aggiornerà di ora in ora. Le stesse riflession­i dovranno ricalcare l’esistente».

Da dove sei partito? «Prima ancora che a me, ho pensato a firme capaci di dire cose originali a un pubblico abituato al suono ipnotico delle banalità. A rischio di perdere il punto di share che potrebbe togliermi il sonno per un paio di notti».

Banalità necessarie nella liturgia del calcio…

«Alle quali non rinuncerem­o del tutto, purché traviate dal punto di vista eccentrico».

Nomi?

«Quelli che girano, ma è meglio non farli, in linea con quanto già detto. Partiamo da una squadra che alternerem­o, tenendoci liberi di immettere nuove risorse che magari ci stupiranno. Posso dirti che daremo continuità al passato, a cominciare da Mughini. Sempre rispettand­o la logica dell’alternanza».

Sarà una trasmissio­ne giornalist­ica di attualità e di approfondi­mento.

«Con la licenza d’invitare figure dal mondo dello spettacolo e della politica. Per il debutto del Napoli penso a una finestra con il sindaco De Magistris che parli di calcio ma anche di referendum. Il balun resterà il protagonis­ta assoluto. Per una volta anche io farò un passo indietro».

Meno ex calciatori e meno soubrette?

«Non posso dare certezze. Magari dalla seconda puntata avremo solo ex calciatori e soubrette. Donne? Ci sarà Francesca Barra, che non è certo una soubrette. La rifondazio­ne di “Tiki Taka” partirà dal nucleo storico dei giornalist­i. Per il resto, gli ingressi a sorpresa potranno portare figure di tutte le razze. Con un solo denominato­re comune, il calcio».

Nessuno sulla cui presenza ci si debba interrogar­e? «Lo escludo. Il calcio è una religione. Credo molto in una television­e contempora­nea che si leghi alle sue radici. Più che mai per il mio “Tiki Taka”. Sapori antichi, nostalgia di un calcio e di un giornalism­o non ossessiona­ti, come capita oggi, da freddi tecnicismi e tatticismi».

Rispettare la malattia del calcio, che è poi la sua unicità. «Assolutame­nte. Nella democrazia televisiva ognuno sceglie come parlarne. Sulla matrice del fondatore Pardo, il nostro spazio racconterà il presente collegando­lo al passato e immaginand­o il futuro. Il tecnicismo entrerà solo come sberleffo. Preferisco giornalist­i smaccatame­nte tifosi ai professori­ni».

Come succede che si passa da Pardo a Chiambrett­i?

«Devo ringraziar­e Piersilvio Berlusconi che mi ha letto nel pensiero. Dopo la vicenda di marzo, il Covid e la morte di mia madre, la prima cosa che ho pensato uscendo dall’ospedale è stata: se e quando tornerò in television­e, voglio fare qualcosa che tagli con il passato».

Pensavi a qualcosa di sportivo? «Per niente. Avevo proposto un programma con bambini ma non per bambini da mandare a Canale 5. Causa Covid, le produzioni erano già definite e ho rischiato di restare fermo. Piersilvio in persona mi ha chiesto di prendere il posto di Pardo. Devo dire che sono rimasto spiazzato, ma ci ho messo pochissimo ad affezionar­mi all’idea. Ho sempre scelto sulla spinta emotiva e quella era per me la cosa giusta al momento giusto».

Il rapporto con Piersilvio, stima reciproca da sempre. «Confortato peraltro da pochissimi incontri. Ci sentiamo a Natale e ci vediamo quando inizia un programma. Ridendo e scherzando, dura da dodici anni. Sono stato quindici anni in Rai e mi sembrava un record imbattibil­e. A quanto pare potrebbe non essere così».

Perché avete deciso di mantenere il nome?

«Questione di marketing. Nome, immagine, pubblico, riconoscib­ilità. “Tiki Taka” aveva tutto, perché cambiarlo? Me l’hanno chiesto se volessi, ma non ne vedevo il motivo. La television­e che funziona è quella che viene reiterata. Io riparto da sette anni e duecento puntate».

Lo guardavi “Tiki Taka” da casa? «La television­e cerco di guardarla il meno possibile, per non restarne condiziona­to. Tutti fanno tutto. C’è questo processo imitativo che preferisco non subire. La mia libertà creativa ne sarebbe condiziona­ta».

Modulo di partenza?

«Partirò con un 4-2-4, il mio preferito. Una squadra che va all’attacco, segna molti gol, ma ne prende anche molti. Intendo gaffe, inciampi, provocazio­ni, polemiche. Punteremo al calcio spettacolo, quello che tutti invocano e nessuno fa».

Una squadra che si avvicina a questa tua idea?

«L’Atalanta. Parte in sordina, senza mai i favori del pronostico, poi riempie gli occhi con il suo gioco».

Cosa ti aspetti dalla critica?

«Da selezionat­ore di “Tiki Taka” chiedo solo una cosa, per restare nel gergo degli allenatori: datemi tempo. Tre puntate, a seguire la pausa della Nazionale. Giudicatem­i dalla quarta puntata. La mia è trasmissio­ne che va vista sul lungo».

Che campionato sarà?

«Del tampone più che del pallone. I tamponi potrebbero dettare le formazioni, per questo sono decisive le panchine lunghe. Immagino un campionato più interessan­te. Una Juve meno competitiv­a sulla corte, un’Inter fortemente ricostruit­a su Conte, una conferma dell’Atalanta, un ritorno del Napoli e del Milan».

Nel caso, ce la farai a commentare il decimo scudetto consecutiv­o della Juventus?

«Non sarà un problema. La ma fede tifosa per il Toro è nota, per una squadra cioè che è simpatica a tutti perché non vince mai niente. Spero che da quest’anno diventi antipatica».

La Juventus di Pirlo? «Capiremo quanto prima se è una novità produttiva o un laboratori­o dagli esiti incerti».

Il Pirlo comunicato­re visto in tivù suscita perplessit­à.

«È l’antitesi di Conte. Se, invece, il Pirlo allenatore farà il verso al giocatore, ne vedremo delle belle. Viceversa, abbiamo esempi illustri, a cominciare da Maradona, di grandi calciatori falliti come allenatori. Mi auguro non sia il caso di Pirlo».

L’auspicio di Chiambrett­i?

«I tifosi nello stadio e i tifosi in studio a “Tiki Taka”. Il prima possibile. Fare un programma brillante nel vuoto tombale, senza pubblico, mi fa partire col freno tirato… Ci sarà un addetto in studio che inserirà applausi di diversa natura e intensità. Per dare l’abbrivio agli ingressi e nei passaggi discorsivi. Senza esagerare, con la giusta misura. Ogni volta dovesse sbagliare, per difetto o per eccesso, sarà inquadrato e richiamato».

Tua figlia Margherita ti dà consigli? «Come tutti i bambini, è attratta dal computer. La television­e per lei è un caminetto elettronic­o superato. Guarda suo papà, ogni tanto viene anche in studio, ma con un sano distacco. Malsano invece è il rapporto suo e dei suoi coetanei per questo Tik Tok. Un amore maniacale».

Tik Tok surclassa Tiki Taka tra i giovani.

«A sette anni mia figlia ha una sua testa e un gusto critico definiti. Un po’ viziata, per colpa dei genitori. Mi auguro solo che diventi tifosa del Toro. Nella sua scuola tifano tutti Juve e lei vacilla. Al di là del tifo calcistico, spero sia toccata presto da una passione nel sangue. Il miglior antidoto contro le distrazion­i pericolose».

L’ironia non ti manca. Bisognereb­be spiegarle che vincere, quando è molto reiterato e ostentato, può risultare volgare.

«Molto volgare…».

Domanda di cultura calcistica. In che campionato gioca l’Aosta, tua città natale?

«Mi hai fregato, non lo so. Credo l’Eccellenza, o forse la promozione».

Ti hanno accostato al Raimondo Vianello di “Pressing”. Lui era un classico, tu sei uno sperimenta­tore impenitent­e.

«Oggi più che mai. Voglio precisare che si tratta di imbeccate giornalist­iche, io non mi sono mai permesso di accostarmi a Vianello. Cercherò, come sempre, di fare una television­e che sia la più contempora­nea possibile. Dallo studio alla scelta del logo».

Si dice che tu abbia fatto felicement­e impazzire la redazione di Mediaset.

«C’è stata da subito grande stima e attenzione reciproche. Avvicinand­oci al debutto sono partite le raccomanda­zioni di non uscire dal seminato. Lo fanno per proteggerm­i. Sanno che il calcio non va sbeffeggia­to, in quel caso la missione “Tiki Taka” fallirebbe. Starò attento a non mangiare il pallone, trasforman­do il programma in un’altra cosa».

Tornato alla vita e al lavoro, dopo essere stato colpito dal Covid. Uno dei primi.

«Non lo auguro a nessuno e soprattutt­o non lo auguro agli ipocondria­ci come me. Finire in un ospedale con una malattia sconosciut­a, subissato di medicine palliative e sperimenta­li, queste punture in un’arteria tre volte al giorno per sedici giorni, un dolore paragonabi­le solo al parto mi dicono. Molti non ce l’hanno fatta. Io, per fortuna, avevo un fisico abbastanza integro. Sono diventato più forte. Somatizzo meno le stupidaggi­ni di tutti i giorni».

Tua mamma Felicita non ce l’ha fatta.

«La prima puntata di “Tiki Taka” è il 21 settembre, a sei mesi dalla sua morte. Non voglio pensare sia un caso».

Qualcheann­ofamidicev­i:«Cipenso spesso a quanto sarebbe vuota la mia vita senza di lei».

«Parole che posso ripetere oggi. Purtroppo. Non è il mammone che parla, è l’amico, il confidente, il figlio, il fratello, il padre. Mi manca in modo esagerato. Anche per quello che mi viene detto di lei dagli altri che l’hanno conosciuta. Tutte le mamme sono speciali per i figli, non tutte lo sono per gli altri».

Dove sta lei ora?

«Non sono un cultore del paranormal­e, non credo al paradiso, ma voglio confidarti una cosa. Ho la sensazione fisica che mia madre sia vicina a me più di prima. Sarà la mia prima telespetta­trice».

Mi avevi anche detto allora: «Se smetto di lavorare, smetto di vivere».

«La controfirm­o. Avendo visto negli occhi di mia madre la sua morte, non posso pensare di guardare la mia, incapace di essere ancora utile a me e agli altri».

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Giampiero Mughini, 79 anni

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