BRIVIDO CALCIO
De Laurentiis «congela» Milik Fonseca: A Verona con Dzeko
La causa del Napoli per danno d’immagine e due mensilità bloccano il polacco Roma con Micki falso nueve (20.45)
Il vantaggio della Juventus sulla seconda in classifica è calato dai 9 punti di media avuti negli otto scudetti con Conte e Allegri all’unico punto conservato con il nono titolo di Sarri. Quanta distanza ancora esiste tra l’egemonia juventina e il resto del calcio italiano? Questa è la domanda che alla vigilia del campionato alimenta tutte le altre e da tutte è sostenuta. La Juventus conserva un vantaggio culturale.
Il vantaggio della Juventus sulla seconda in classifica è calato dai 9 punti di media avuti negli otto scudetti con Conte e Allegri all’unico punto conservato con il nono titolo di Sarri. Quanta distanza ancora esiste tra l’egemonia juventina e il resto del calcio italiano? Questa è la domanda che alla vigilia del campionato alimenta tutte le altre e da tutte è sostenuta. La Juventus conserva un vantaggio culturale. Quasi psicologico. Ha inculcato negli avversari la convinzione che in un modo o nell’altro perderanno. È sempre un buon motivo per perdere davvero. Ha il vantaggio dell’abitudine allo scudetto, esercitata per attitudine quasi genetica, come un diritto di natura. La Juventus ha mezzi, modi e voci per limitare l’esposizione del proprio ambiente alla fragilità e per nasconderla quando si manifesta. È un mondo che ha la forza per imporre il pensiero di essere sempre sulla strada giusta, sia quando compra Higuaín strapagandolo novanta milioni sia quando se ne disfa, mentre lascia un buco nel bilancio.
Eppure, i dubbi con i quali inizia oggi la Serie A stavolta la riguardano. Più della distanza accorciata dalla seconda, impressiona la riduzione del vantaggio sulla quarta. Era di 37 punti sei anni fa. È sceso a cinque nell’agosto scorso. Significa che non c’è il solo mondo dell’Inter a essersi avvicinato - un mondo programmato per quello, che esiste quasi solo per quello - ma un piccolo ceto in viaggio evolutivo da classe media a élite, realtà come l’Atalanta e la Lazio, alle quali sono mancate un anno fa confidenza e consapevolezza. La distanza fra le Juventus e il resto d’Italia si misura in sostanza in due nomi, Pirlo e Dzeko. Il primo è il brivido dell’ignoto. Non ha un solo minuto ufficiale da allenatore nel suo passato. Lui stesso non ne trascura l’importanza, se ha voluto nel suo staff Igor Tudor, che ha già un’esperienza di sette anni maturata in cinque squadre, con una Coppa di Croazia vinta a Spalato, e se voleva con sé anche Alessandro Nesta, 157 partite da capo allenatore tra Miami, Perugia e Frosinone. Per Pirlo si è usato l’aggettivo di predestinato, un prescelto. Ma i prescelti si fanno riconoscere manifestandosi. Almeno con un bagliore. Un lampo, una stella cometa. Fino a domani siamo ancora 0-0.
L’altra sospensione di certezze riguarda Dzeko, più in generale la corsa contro il tempo della Juventus per regalare a Ronaldo un centravanti, il suo cibo preferito. Sistemandolo in cima alla catena alimentare, Pirlo gli riconsegna il destino della squadra, come se due eliminazioni consecutive agli ottavi di finale di Coppa dei Campioni non fossero esistite. Quello alla fine sarà il vero terreno di gioco della Juventus, quello il terreno su cui sarà esaminata e giudicata la nuova gestione. Altrimenti perché mandare via Sarri dopo uno scudetto?
Ma in questo singolare affare che coinvolge pure Trigoria e il Napoli, stasera Dzeko è ancora a Verona con la maglia della Roma e Milik a Napoli, fuori rosa, a guerreggiare su multe e arretrati. Se e quando si farà, nel saldo tra i saluti al bosniaco e l’arrivo del polacco, sulla scorta del rendimento delle loro ultime tre stagioni, la Roma perderebbe fra i due e i tre gol, fra i quattro e cinque assist e una sessantina di tiri in porta in tutto il campionato. Ma guadagna otto anni di gioventù in attacco e una futura plusvalenza. Si tratterebbe del più grosso cambiamento nel cuore di una squadra, in una stagione che comincia con 15 allenatori confermati su 20, perché non c’era abbastanza tempo per progettare rivoluzioni. È un campionato anomalo anche perché il grosso dei soldi sul mercato è stato speso per riscattare i prestiti, s’è mosso poco o nulla, così più o meno nessuno porta sulle spalle il peso del cambiamento e la necessità di prendersi del tempo prima di funzionare appieno.
Sono due perciò le squadre che possono sorprendere in uscita dai blocchi. La prima è il Milan. È stata la squadra più forte dopo il lockdown. Ha messo insieme 30 punti, come l’Atalanta ma con una partita in meno, davanti all’Inter con 28, la Roma 25, il Napoli 23, la Juventus 20. Gazidis ha fatto da allora un calcolo di navigazione. Ha scelto di restare sotto costa. Ha scelto di farsi bastare il minimo che garantisce Pioli senza inseguire il tanto che prometteva Rangnick. Ha pensato di avere abbastanza mare senza dover andare a scoprire nuove terre. Ibrahimovic è condannato a giocare a 39 anni allo stesso modo in cui ha giocato a 38. La seconda squadra che può stupire subito è il Sassuolo, per la spontaneità acquisita dentro i meccanismi di De
Zerbi e perché si tratta dell’unica a non dover affrontare nessuna delle prime 7 di un anno fa in cinque giornate, nessuna fino a novembre.
In giro è tutto un campo minato di incertezze. Il calcio pandemico sparpaglia situazioni paradossali, giocatori che in passato i club si auguravano di trattenere e che adesso si augurano di poter cedere bene. De Laurentiis parte per la prima volta dopo cinque o sei anni senza sentirsi il primo alle spalle della Juventus. Nel campionato delle panchine affidate ai campioni del mondo 2006, Gattuso è l’allievo nel quale Marcello Lippi rivede di più sé stesso, ma il Napoli si era abituato ad avere in panchina non imitatori ma imitati: Benítez, Sarri, Ancelotti. Commisso resta sospeso tra un senso di incompiutezza per ciò che manca e la qualità certificata di chi è arrivato. Una cessione sottovalutata è quella di Fofana dall’Udinese al Lens, in questo momento uno dei 2-3 migliori giocatori perduti dalla Serie A, e per soli 10 milioni.
È una ripartenza più confusa e mesta rispetto alla prima di giugno, quando uscendo dal lockdown il calcio si proponeva come un veicolo di riattivazione dei piccoli gesti quotidiani, fosse pure con qualche imbarazzo. Ha vissuto ogni incertezza nel nome di un’emergenza e di una straordinarietà da gestire. Ora, dentro questa che chiamiamo nuova normalità, ogni indugio pare invece il segno di una mancanza di chiarezza. Il pubblico negli stadi, per esempio: sarà niente, sarà mille, sarà il 20% della capienza? I contagi aumentano, come nel resto d‘Europa. Giochiamo pure, ma magari proviamo a capire dove vogliamo andare.
Gli ultimi distacchi lasciano sperare concorrenti come Atalanta e Lazio
Mercato dominato dalle incertezze Milan e Sassuolo pronte a sorprendere