Prima si decide meglio è
I due Friedkin, padre e figlio, mi persuadono sempre più. Credo in loro. E provo a spiegare i motivi, al di là dell’irragionevole ottimismo probabilmente da attribuire alla persistenza di una “simpatia” per il giallorosso che viene da molto lontano.
Idue Friedkin, padre e figlio, mi persuadono sempre più. Credo in loro. E provo a spiegare i motivi, al di là dell’irragionevole ottimismo probabilmente da attribuire alla persistenza di una “simpatia” per il giallorosso che viene da molto lontano. Dan e Ryan prendono la Roma nel punto più basso del suo ultimo decennio, macerie del progetto bostoniano nella bolla del Covid, all’interno di un sistema calcio il cui caos è un lillipuziano frammento del caos planetario. Del domani non v’è certezza, ma anche l’oggi non scherza.
Arrivano in maschera e questo conferisce loro un alone di mistero. I più insani di noi pensano a Zorro il Cavaliere senza paura, non alle conseguenze del Virus. Non sembrano spaventati i due, sotto la maschera. Parlano poco, il minimo indispensabile. Il che, oltre a intensificare il mistero, marca la spaccatura netta con la logorrea scomposta del loro predecessore. Tacciono con un’ostinazione che sa di metodo e dunque di forza. Non parlano e non promettono.
Tacciono anche nei giorni del post-Verona. E questo, ai miei occhi sempliciotti, li rende ancor più mirabili. Sempre in maschera, Dan e Ryan si presentano al Bentegodi per la loro prima ufficiale. Assistono e partecipano a quella che loro credono sia una partita di calcio, il debutto ufficiale della loro Roma, un pareggio mediocre, salvo poi scoprire, a distanza di due giorni, che quella partita non si era mai giocata, non era mai esistita. Avevano assistito a una pantomima, con il risultato già scritto “on table”, nella traduzione per i texani.
E loro cosa fanno? Tacciono. Agenti a Trigoria li raccontano furiosi, ma è una furia silenziosa. La più temibile. Stiamo parlando di Verona, uno degli episodi più malinconici della storia romanista, tra la farsa Dzeko e il pasticcio Diawara. Nel frattempo, inutile dire, sui due Friedkin calano le mannaie dei carnefici sparsi nelle loro comode tane, e se prima era esecrabile la chiacchiera del bostoniano ora lo è il silenzio del texano (in realtà californiano). E loro? Facile immaginarli mentre si scrollano di dosso due cimici di forfora secca.
Passata la furia, il tema sensibile oggi ha il nome di Paulo Fonseca. E qui le decisioni devono essere rapide, decise, soprattutto se crudeli. Fonseca è uomo di un’eleganza rara. Abbiamo imparato a rispettarlo. Non sappiamo se è un grande allenatore. Non ha avuto la possibilità di dimostrarlo. È arrivato in una Roma destabilizzata da mille guasti e veleni, a partire dall’assenza dell’umorale James. Se davvero il suo destino è segnato, la partita di domenica all’Olimpico con la Juve sia, in ogni caso, il capolinea (da dilettanti assestare o modificare una sentenza sulla base di una partita). Sarebbe una mossa brutale nei confronti di Fonseca, ma gli allenatori sono strapagati anche per questo, subire brutali esecuzioni a favore delle masse. Chiunque sarà dopo di lui, se Max Allegri, sempre più indotto in tentazione, o chiunque altro, dovrà avere almeno una settimana di tempo per capire dove è finito (ma qui forse non basterebbe una vita), e soprattutto per incidere nell’ultima finestra di mercato dove la Roma deve mettere insieme i pezzi mancanti e pacificare quelli esistenti.