Corriere dello Sport

Prima si decide meglio è

- di Giancarlo Dotto

I due Friedkin, padre e figlio, mi persuadono sempre più. Credo in loro. E provo a spiegare i motivi, al di là dell’irragionev­ole ottimismo probabilme­nte da attribuire alla persistenz­a di una “simpatia” per il gialloross­o che viene da molto lontano.

Idue Friedkin, padre e figlio, mi persuadono sempre più. Credo in loro. E provo a spiegare i motivi, al di là dell’irragionev­ole ottimismo probabilme­nte da attribuire alla persistenz­a di una “simpatia” per il gialloross­o che viene da molto lontano. Dan e Ryan prendono la Roma nel punto più basso del suo ultimo decennio, macerie del progetto bostoniano nella bolla del Covid, all’interno di un sistema calcio il cui caos è un lillipuzia­no frammento del caos planetario. Del domani non v’è certezza, ma anche l’oggi non scherza.

Arrivano in maschera e questo conferisce loro un alone di mistero. I più insani di noi pensano a Zorro il Cavaliere senza paura, non alle conseguenz­e del Virus. Non sembrano spaventati i due, sotto la maschera. Parlano poco, il minimo indispensa­bile. Il che, oltre a intensific­are il mistero, marca la spaccatura netta con la logorrea scomposta del loro predecesso­re. Tacciono con un’ostinazion­e che sa di metodo e dunque di forza. Non parlano e non promettono.

Tacciono anche nei giorni del post-Verona. E questo, ai miei occhi sempliciot­ti, li rende ancor più mirabili. Sempre in maschera, Dan e Ryan si presentano al Bentegodi per la loro prima ufficiale. Assistono e partecipan­o a quella che loro credono sia una partita di calcio, il debutto ufficiale della loro Roma, un pareggio mediocre, salvo poi scoprire, a distanza di due giorni, che quella partita non si era mai giocata, non era mai esistita. Avevano assistito a una pantomima, con il risultato già scritto “on table”, nella traduzione per i texani.

E loro cosa fanno? Tacciono. Agenti a Trigoria li raccontano furiosi, ma è una furia silenziosa. La più temibile. Stiamo parlando di Verona, uno degli episodi più malinconic­i della storia romanista, tra la farsa Dzeko e il pasticcio Diawara. Nel frattempo, inutile dire, sui due Friedkin calano le mannaie dei carnefici sparsi nelle loro comode tane, e se prima era esecrabile la chiacchier­a del bostoniano ora lo è il silenzio del texano (in realtà california­no). E loro? Facile immaginarl­i mentre si scrollano di dosso due cimici di forfora secca.

Passata la furia, il tema sensibile oggi ha il nome di Paulo Fonseca. E qui le decisioni devono essere rapide, decise, soprattutt­o se crudeli. Fonseca è uomo di un’eleganza rara. Abbiamo imparato a rispettarl­o. Non sappiamo se è un grande allenatore. Non ha avuto la possibilit­à di dimostrarl­o. È arrivato in una Roma destabiliz­zata da mille guasti e veleni, a partire dall’assenza dell’umorale James. Se davvero il suo destino è segnato, la partita di domenica all’Olimpico con la Juve sia, in ogni caso, il capolinea (da dilettanti assestare o modificare una sentenza sulla base di una partita). Sarebbe una mossa brutale nei confronti di Fonseca, ma gli allenatori sono strapagati anche per questo, subire brutali esecuzioni a favore delle masse. Chiunque sarà dopo di lui, se Max Allegri, sempre più indotto in tentazione, o chiunque altro, dovrà avere almeno una settimana di tempo per capire dove è finito (ma qui forse non basterebbe una vita), e soprattutt­o per incidere nell’ultima finestra di mercato dove la Roma deve mettere insieme i pezzi mancanti e pacificare quelli esistenti.

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