Coronavirus e morali-virus
Il tampone positivo di Zlatan Ibrahimovic e la levata di scudi contro la riapertura parziale degli stadi ci dicono che il campionato di Serie A, appena iniziato, si gioca in ventidue, cioè con due avversari in più. Il primo è il coronavirus, che può azzoppare un top player determinante come lo svedese, costringendo il Milan a sudare sette camicie per salvare l’Europa. Il secondo è il morali-virus, malattia oscurantista del pensiero che contagia gli scienziati e la politica.
Il tampone positivo di Zlatan Ibrahimovic e la levata di scudi contro la riapertura parziale degli stadi ci dicono che il campionato di Serie A, appena iniziato, si gioca in ventidue, cioè con due avversari in più. Il primo è il coronavirus, che può azzoppare un top player determinante come lo svedese, costringendo il Milan a sudare sette camicie per salvare l’Europa. Il secondo è il morali-virus, malattia oscurantista del pensiero che contagia gli scienziati e la politica, e che surroga la competenza con l’ignoranza e il pregiudizio.
Mentre scriviamo questo articolo sull’iPad, attraversiamo la Capitale sulla metropolitana A, infagottati in due mascherine chirurgiche sovrapposte l’una all’altra, con le quali proviamo a difenderci nella folla di persone accalcate nel vagone nell’ora di punta pomeridiana. Il nostro pensiero corre ai fortunati che domenica assisteranno a Roma-Juventus dagli spalti dell’Olimpico: mille per una capienza di 70mila posti, distanziati socialmente quanto le stelle dell’Orsa Maggiore.
Ci concediamo questa ironia nella convinzione che il Covid sia una minaccia vera, di cui avere paura, ma proprio per questo da sfidare con coerenza. Che coerenza c’è tra un assembramento tollerato o ignorato, qual è quello del metrò, e un divieto scientificamente immotivato, qual è quello degli stadi chiusi? Purtroppo in Italia l’azzardo irrazionale dei negazionisti è l’altra faccia della protervia rozza degli untori. Che si trincerano dietro false ragioni sanitarie e assumono o impongono alla comunità dogmi, frutto di un fanatismo moralista che non risparmia le classi dirigenti.
È una malattia dell’emergenza. Sviluppa nelle democrazie fragili anticorpi fuori controllo, che anziché sbarrare la strada al virus iniettano nel sistema le tossine dell’intransigenza. Così virologi e politici gonfiano il petto d’orgoglio nel pronunciare la frase fatidica: “Il calcio non è una priorità”. Nessuno di costoro si rende conto che contrapporre le ragioni dello sport a quelle dell’istruzione, o piuttosto del lavoro, equivale a scoprire la loro inettitudine nel riorganizzare la vita di una comunità in sicurezza, di fronte all’assedio della pandemia.
Il rigoroso protocollo di Regioni e Lega calcio è un tentativo di superare questa miopia e di dimostrare che la riapertura degli stadi al 25 per cento della capienza è un ragionevole compromesso. Che ridà fiato a un’economia sportiva altrimenti destinata al crac, senza compromettere le regole della prevenzione. Se lo approva e lo rende esecutivo dalla prossima settimana, il governo ha l’occasione per dare prova che i divieti rispondono a una valutazione ponderata, non ideologica, tra gli obiettivi sanitari e i costi sociali. E che il comitato tecnico-scientifico è ancora un comitato di consulenti che aiuta la politica a decidere e non un sinedrio di sacerdoti che tengono la democrazia sotto tutela.
Se poi questi scienziati salissero, com’è accaduto a noi ieri, su un vagone del metrò, avrebbero la percezione di quant’è diversa, e più complessa, la lotta alla pandemia se condotta oltre l’ottusa burocrazia di certi protocolli. La scienza e il moralismo insieme possono diventare una religione pericolosa, e scatenare per contrasto la tentazione dell’ateismo. La convivenza con il virus richiede sempre più una moderata e razionale laicità.
Sono risultato negativo al Covid ieri e positivo oggi. Nulla che possa avvicinarsi a un sintomo. Il Covid ha avuto il coraggio di sfidarmi. Una cattiva idea.