«FIDUCIA A FONSECA»
DOPO LO 0-3 A TAVOLINO E L’ESAME FARSA, ROMA-JUVE HA GIÀ UN VINCITORE Fienga blinda il tecnico portoghese e allontana Allegri e Paratici
L’Inibito Guido Fienga ha spiegato le ragioni e i programmi a breve della Roma durante la conferenza stampa a distanza sociale per la presentazione di Pedro. È stato chiaro e diretto. L’Inibito, contro il quale sta per scattare un secondo provvedimento e allora immagino che patteggerà per evitare la squalifica (curioso come tutte queste sanzioni gli vengano comminate a pochi giorni dall’assemblea di Lega nella quale si deciderà l’ingresso dei fondi: ricordo che l’Inibito si è schierato a favore di un private equity sgradito ai lotitiani, che hanno un loro piano); l’Inibito, dicevo, sta portando avanti da solo o quasi - e tra mille difficoltà dovute ai tempi ristrettissimi del passaggio di proprietà - la gestione della Roma.
Marash Kumbulla, per esempio. Non era stato giudicato pronto sabato scorso per Verona. Così irrimediabilmente impreparato, secondo Fonseca, da scivolare nelle gerarchie dietro un centrocampista per un posto fra i tre centrali. Può una difesa Under 22 di età media sperimentare se stessa e giocare insieme per la prima volta contro Cristiano Ronaldo? Oppure: Pau López. Fino a quando si può continuare a tenere in panchina un portiere pagato trenta milioni?
Dall’altra parte ci sono i dubbi sul conto di Pirlo, nemmeno emersi contro la Sampdoria perché un 3-0 sa come nasconderli, eppure presenti, per esempio a proposito dei piedi a cui assegnare la direzione del gioco, su che cosa fare di Bentancur, se considerarlo una alternativa al Rabiot da 107 palloni toccati all’esordio o se immaginarlo un vice McKennie, posto che non sia McKennie un vice Bentancur. E poi Frabotta: se sì, se no, se riproporlo. E poi Mkhitaryan,
così falso centravanti davanti alla porta, così mangiatore di gol a Verona, da domandarsi se valga la pena insistere o inventarsi qualcos’altro, aspettando di non doversi più inventare niente e riabbracciare finalmente Dzeko, ricostruire un rapporto.
Ce ne sarebbero state di cose da chiedersi, parlando di calcio, prima di presentarsi al cospetto di Roma-Juventus, la partita in questi anni arrivata sempre troppo tardi, alle ultime giornate, quando ogni cosa era decisa oppure sul punto di esserlo, quando i verdetti erano nell’aria e l’aria li restituiva infatti senza sorprese dopo 90 minuti. Dal gol scudetto di Osvaldo ai tre per il secondo posto e la qualificazione Champions di De Rossi, El Shaarawy e Nainggolan: sono passati appena tre anni. Una partita che invece stavolta arriva presto, così presto per tante cose, forse per tutte eccetto che per proporsi come un primo esame elementare, senza conseguenze, un test di quelli che prima della pandemia si andavano a sostenere a inizio agosto dall’altra parte del mondo, in America o in Asia, contro grandi avversarie, e che invece sono mancati a questa estate bizzarra, trascorsa senza amichevoli di lusso, senza che fossero del tutto autentici sia il riposo sia il ritiro di preparazione.
Il calcio invece è rimasto fuori, ai margini dell’attesa della prima grande partita della stagione. Siamo stati travolti dal chiacchiericcio di mercato e da una doppia distrazione, dall’inibizione di Fienga e le intercettazioni di Perugia, da una Roma che negli ingranaggi di comando fuori dal campo non è più di Pallotta ma non è ancora tutta dei Friedkin, da una Juventus finita di nuovo dentro un vortice di confusione e di veleni, entrambe scosse da un pezzo di carta, ciascuna a modo suo, una distinta mal compilata in Lega per un errore di trascrizione da una parte o un certificato di competenza linguistica dall’altro. Da uno 0-3 e da un B1, dagli hashtag, da due storie trascinate nella parodia dei meme, così che questa partita finisce oggi per sembrare una somma di fragilità. Sarà interessante capire come ha gestito le sue Fonseca, messo a friggere su una griglia alimentata dal fuoco dei nomi di Allegri e di Rangnick, oppure come ha fatto Pirlo, che
L’ombra di Allegri dietro al portoghese in uno stadio dove la Juve ha vinto tanto
era milanista nei giorni rovinosi di Calciopoli, oltre che compagno in nazionale di Buffon e degli altri juventini, ed era pure calciatore nello spogliatoio bianconero quando l’inchiesta su calcio e scommesse partita dalla procura di Cremona coinvolse il Bari e per omessa denuncia Antonio Conte. Ha dovuto per forza imparare a restare imperturbabile dinanzi a certi echi di battaglie estranee al campo. Se predestinato significa davvero qualcosa, il passaggio di domani sera all’Olimpico dovrà certificarlo.
È per un curioso caso lo stadio nel quale la Juventus ha celebrato più volte se stessa e i suoi trofei, perfino più di Roma e Lazio, a partire dall’aritmetica certezza degli scudetti del 1973 e del 1978, cinque volte poi la Coppa Italia, due la Supercoppa Italiana, finanche la Coppa dei Campioni del 1996 vinta ai rigori contro l’Ajax e da allora mai più portata a Torino. Juventus e Roma sono le squadre più spesso piazzate ai primi due posti da quando la Serie A ha svoltato l’angolo del Duemila, quattordici volte (più due revocate) i bianconeri quasi sempre primi - e dieci volte la Roma, tranne che in un caso sempre seconda, mai però nelle ultime tre stagioni. È una partita che avendo perduto il fascino dell’attesa e della vigilia, almeno domani sera nei suoi novanta minuti in campo dovrà restituirci più di qualcosa in emozioni e in bellezza, seppure senza Zaniolo, senza De Ligt, senza pubblico. La Roma ha parlato più di un centravanti del Napoli che di sé, la Juventus si è occupata più di un attaccante del Barcellona finito all’Atlético Madrid che di Kulusevski e Morata. È strano questo calcio che prometteva di essere migliore e che sembra incapace di cambiare. Per fortuna arriva sempre il momento in cui qualcuno mette la palla al centro, e si comincia.
Zaniolo-De Ligt out e niente tifosi ma l’obbligo di generare bellezza ed emozioni