La passione delle Mamme
Una sera a Bologna - giocava la Nazionale - nel luogo in cui mezzo secolo fa risuonava il grido “onorevole!” indirizzato a Giacomo Bulgarelli, ho ritrovato l’onorevolissimo Gianni Rivera in gran forma, impegnato a reclamizzare l’autobiografia in dimensioni bibliche appena sfornata (l’ho comprata) e non ho potuto fare a meno di ricordare non solo il divin pedatore che, pur giovanissimo, veniva accolto come un campione per l’eternità ma soprattutto il giovane uomo ch’era venuto dalle mie parti a fare il militar soldato – di base era al CAR d’Orvieto - e avevo incontrato a Loiano, il paese dell’altro Gianni d’Italia,
Morandi, al campo estivo, insaccato nella sua divisa che lo faceva più uomo, meno abatino. C’era anche Bulgarelli. E con loro Stadio.
Era una stagione di grandi sentimenti, e dunque anche di forti polemiche: ma se oggi si deve arrossire registrando l’exploit di Sarri che dà del finocchio a Mancini, a quei tempi Rocco e Herrera s’affrontavano dandosi del
“mona” o dell’”estronso” che secondo Pesaola poteva essere contemporaneamente insulto o complimento. Brera dava dell’Abatino a Rivera, Oreste del Buono insorgeva in difesa del suo capitano, l’Italia si spaccava in due e quella divisione andava negli anni superando lo scontro fra comunisti e democristiani. Non solo Brera ma un esercito di critici vedeva di malocchio quel ragazzino gracile ch’era
diventato la passione delle Mamme d’Italia, modello di normale bellezza vestita di esemplare educazione: una svolta anche estetica in un calcio rude sul campo, spesso rozzo nel confronto dialettico. Brera non si sprecava in tali banalità, certo gli dava fastidio che uno degli “italianuzzi” non ancora fortificati dalle bistecche al sangue e dai “sergenti di ferro”, potesse grandeggiare senza rispetto dei suoi canoni ma piuttosto brillando per virtù… letterarie nei Podemi di Pier Paolo Pasolini che di lui infatti disse “gioca un calcio in prosa, ma la sua è una prosa poetica, da elzeviro”. Brera preferiva Mazzola – e Valcareggi dovette inventarsi la famigerata “staffetta” mentre Pelè, basito, diceva “è un peccato mortale non farli giocare insieme”. Io, come ho già raccontato, fui riveriamo sotto l’influenza di un mio caro direttore, Nino Nutrizio, e quando scrivevo sulla Notte - ancora non mi aveva accolto Stadio - ero offensivista, al difensivismo mi convertí Brera con argomenti simili al “vincere assoluto” di Boniperti, tant’è che Enzo Ferrari, in quel suo libro “il Flobert” dedicato ai giornalisti del suo tempo mi definì semplicemente ondivago per le diverse, opposte opinioni spese sul conto di Rivera: ma ero semplicemente passato dall’adorazione qualunquistica dei Piedi Buoni alla religione del Contropiede e del Catenaccio della quale son tuttoggi praticante. Ma Gianni Rivera, bisticci a parte talvolta sanati dagli interventi ironici di Padre Eligio, il frate devoto al Golden Boy, è sempre stato ai vertici della mia stima per come sapeva essere pedatore e leader in un
Milan elegantissimo, esportatore ante litteram di un Italian Style il cui capitano valeva ieri un Armani d’oggi. L’altissima qualità di Gianni ha premiato oltre misura i miei primi passi di scettico… rossoblù rivelandomi, come dicevo all’inizio, la straordinaria qualità sociale di un gioco che allora, proprio rispettando la sua definizione, divertiva gli italiani.