Un destino incompiuto
L’ambizione di Chiesa, mettere se stesso al centro del villaggio. Che nel suo caso è il club più grande, quello che non deve chiedere mai. Desiderare non è peccato. A volte sconfina nel delirio, ma il suo è un delirio ragionevole. Quanto meno comprensibile. A 23 anni, dopo essere calcisticamente cresciuto in viola, una magnifica periferia dell’impero, Federico vuole saperne di più.
L’ambizione di Chiesa, mettere se stesso al centro del villaggio. Che nel suo caso è il club più grande, quello che non deve chiedere mai. Desiderare non è peccato. A volte sconfina nel delirio, ma il suo è un delirio ragionevole. Quanto meno comprensibile. A 23 anni, dopo essere calcisticamente cresciuto in viola, una magnifica periferia dell’impero, eternamente definito promessa e poi progetto di campione e poi quasi campione o forse campione, campione sì, però, il ragazzo vuole saperne di più. Lui per primo. Mettersi alla prova nella sfida totale. Diventare o non diventare definitivamente quello che è o forse non è. Al fianco di gente come Cristiano Ronaldo e Dybala, dove non puoi barare, dove puoi sfangare una decente comparsata o giocartela da protagonista. Così andò per Roby Baggio, trent’anni prima, la stessa strada, dalla Fiorentina alla Juventus. «Non sarà il mio Baggio» aveva proclamato Commisso, irruenza latina pura. A quanto pare lo sarà, complice la volontà del giocatore, ma difficilmente ci saranno in questo caso botte e lacrimogeni in piazza.
Si tratta allo stesso tempo di sfatare un destino di famiglia, la storia del padre Enrico, altro talento assoluto, sempre chiacchierato ma mai finito in uno dei tre grandi club che fanno il blasone del nostro calcio. Padre e figlio hanno giocato e fatto bene in maglia azzurra, ma senza mai smarcarsi dalla sensazione dell’“incompiuto”, che per Enrico è un verdetto, per Federico un sospetto, nemmeno troppo latente. Il famoso “salto di qualità”, di questo stiamo parlando. Esterno dalla forza esplosiva, tutto impeto e istinto, Chiesa junior, il che definisce il suo pregio ma anche il suo limite. Dato partente ogni anno e costretto dalle insondabili vicende del mercato a restare, il che non solo gli ha impedito di candidarsi a leader dello spogliatoio, ma ha irreversibilmente smorzato quello che sembrava un suo destino fatto e strafatto, diventare l’idolo della curva Fiesole, oggi casomai propensa a innamorarsi perdutamente di Ribery dopo qualche passaggio critico e, nel domani prossimo, di Castrovilli.
Non sempre amato dai suoi allenatori. Decisamente sì da
Paulo Sousa che lo inventò titolare a diciannove anni, decisamente no da Montella, feeling mai decollato, meglio con Pioli e molto meglio con Iachini. L’evoluzione del giocatore Chiesa è sotto gli occhi di tutti. Ha imparato nel tempo a moderare lo spreco, a orientare le sue energie in un calcio meno dominato dal furore tuttocampista, più consigliato dalla ragione. Più lucidità e meno frenesia. L’intensità resta, ma non viziata dall’anarchia. Quello che non è chiaro, probabilmente allo stesso Federico, è quale sarà l’atto finale di questa evoluzione, se nel territorio del realizzato o quello del mancato.
Commisso farà bene a lasciarlo andare. Non solo perché è sacrosanto abbandonare le cose che ci abbandonano, ma anche perché l’infelicità di Chiesa a Firenze rischia di diventare l’infelicità di tutti. Della sua maturazione in un club che non ti consente di “vivacchiare” sarebbe felice invece una nazione intera. Molto ingeneroso sarebbe linciarlo per una scelta inevitabile.