Corriere dello Sport

Un destino incompiuto

- di Giancarlo Dotto

L’ambizione di Chiesa, mettere se stesso al centro del villaggio. Che nel suo caso è il club più grande, quello che non deve chiedere mai. Desiderare non è peccato. A volte sconfina nel delirio, ma il suo è un delirio ragionevol­e. Quanto meno comprensib­ile. A 23 anni, dopo essere calcistica­mente cresciuto in viola, una magnifica periferia dell’impero, Federico vuole saperne di più.

L’ambizione di Chiesa, mettere se stesso al centro del villaggio. Che nel suo caso è il club più grande, quello che non deve chiedere mai. Desiderare non è peccato. A volte sconfina nel delirio, ma il suo è un delirio ragionevol­e. Quanto meno comprensib­ile. A 23 anni, dopo essere calcistica­mente cresciuto in viola, una magnifica periferia dell’impero, eternament­e definito promessa e poi progetto di campione e poi quasi campione o forse campione, campione sì, però, il ragazzo vuole saperne di più. Lui per primo. Mettersi alla prova nella sfida totale. Diventare o non diventare definitiva­mente quello che è o forse non è. Al fianco di gente come Cristiano Ronaldo e Dybala, dove non puoi barare, dove puoi sfangare una decente comparsata o giocartela da protagonis­ta. Così andò per Roby Baggio, trent’anni prima, la stessa strada, dalla Fiorentina alla Juventus. «Non sarà il mio Baggio» aveva proclamato Commisso, irruenza latina pura. A quanto pare lo sarà, complice la volontà del giocatore, ma difficilme­nte ci saranno in questo caso botte e lacrimogen­i in piazza.

Si tratta allo stesso tempo di sfatare un destino di famiglia, la storia del padre Enrico, altro talento assoluto, sempre chiacchier­ato ma mai finito in uno dei tre grandi club che fanno il blasone del nostro calcio. Padre e figlio hanno giocato e fatto bene in maglia azzurra, ma senza mai smarcarsi dalla sensazione dell’“incompiuto”, che per Enrico è un verdetto, per Federico un sospetto, nemmeno troppo latente. Il famoso “salto di qualità”, di questo stiamo parlando. Esterno dalla forza esplosiva, tutto impeto e istinto, Chiesa junior, il che definisce il suo pregio ma anche il suo limite. Dato partente ogni anno e costretto dalle insondabil­i vicende del mercato a restare, il che non solo gli ha impedito di candidarsi a leader dello spogliatoi­o, ma ha irreversib­ilmente smorzato quello che sembrava un suo destino fatto e strafatto, diventare l’idolo della curva Fiesole, oggi casomai propensa a innamorars­i perdutamen­te di Ribery dopo qualche passaggio critico e, nel domani prossimo, di Castrovill­i.

Non sempre amato dai suoi allenatori. Decisament­e sì da

Paulo Sousa che lo inventò titolare a diciannove anni, decisament­e no da Montella, feeling mai decollato, meglio con Pioli e molto meglio con Iachini. L’evoluzione del giocatore Chiesa è sotto gli occhi di tutti. Ha imparato nel tempo a moderare lo spreco, a orientare le sue energie in un calcio meno dominato dal furore tuttocampi­sta, più consigliat­o dalla ragione. Più lucidità e meno frenesia. L’intensità resta, ma non viziata dall’anarchia. Quello che non è chiaro, probabilme­nte allo stesso Federico, è quale sarà l’atto finale di questa evoluzione, se nel territorio del realizzato o quello del mancato.

Commisso farà bene a lasciarlo andare. Non solo perché è sacrosanto abbandonar­e le cose che ci abbandonan­o, ma anche perché l’infelicità di Chiesa a Firenze rischia di diventare l’infelicità di tutti. Della sua maturazion­e in un club che non ti consente di “vivacchiar­e” sarebbe felice invece una nazione intera. Molto ingeneroso sarebbe linciarlo per una scelta inevitabil­e.

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SESTINI Chiesa e Castrovill­i, 23 anni

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