Corriere dello Sport

Purtroppo il ciclismo è sofferenza

Il sorteggio di Champions riapre una storia di grandi protagonis­ti. Dal carcere dei gerarchi nazisti a Spandau all’Olympiasta­dion, una partita e un’avventura. Finita in una camera a gas... PERCHÉ DOPO NIBALI NON CI SONO PIÙ CAMPIONI?

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Cucci, tornano i neroverdi del Borussia Monchengla­dbach, la squadra del biondo Netzer... Quanti ricordi, il mondo era diverso... 20 ottobre 1971, ero un ragazzo, inizio seconda media, innamorato dell’Inter appena scudettata e di Bobo Boninsegna, che goleador. Allaradios­eguiamolat­rasferta di Coppa dei Campioni... già, Coppa dei Campioni... un’altra storia. La partita volge subito al peggio, Lido Vieri viene fulminato a ripetizion­e, sembra di sognare ma che brutto sogno, i tedeschi inarrestab­ili ci sommergono 7 a 1, disfatta assoluta ma non si riesce bene a capire cosa sia successo a Boninsegna, è caduto a terra senza che nessun avversario l’abbia toccato, viene soccorso con la barella e portato fuori campo, Mazzola raccoglie una lattina che sembra abbia colpito il nostro centravant­i.Siamoincre­duliecoste­rnati, di certo siamo eliminati pensiamo: non è possibile recuperare nel ritorno sei reti ai neroverdi tedeschi. Il telegiorna­le del giorno dopo ipotizza un ricorso, le speranze le crediamo nulle o quasi e invece... il “Miracolo”, l’INDItare

MENTICABIL­E avvocato Peppino Prisco difende l’Inter da Principe del Foro e ottiene l’annullamen­to della gara persa per 7 a 1. Il ritorno in casa lo vinciamo 4 a 2, l’andata la rigiochiam­o in campo neutro e il portiere di riserva Ivano Bordon costringe il Borussia al pareggio a reti bianche. Lo chiamiamo “il Leone di Berlino”. Per un ragazzo di allora è un’avventura fantastica che ha esaltato i ragazzi di Invernizzi e ci ha fatto sperare in un secondo miracolo nell’eventuale finale... Com’è andata lo sappiamo: doppietta del sontuoso Johan Cruyff e l’Inter si deve accontenCa­ro del secondo posto... Con Boninsegna e Ivano siamo diventati amici. E adesso, dopo mezzo secolo, rieccoli, i neroverdi...

Mario Filipponi, gmail.com

Fantastica avventura per te. E per me. Ho seguito il sorteggio, Borussia Monchen... la prima volta che l’ho sentito dire era uno scioglilin­gua, roba da Tonino Carino. Poi Brera risolse il problema: Monchenvad­aviaiciapp. La partita del 7 a 1 l’ho seguita come te e mi sono goduto il racconto di Alfeo Biagi, il magico cronista di Stadio che Bardelli aveva soprannomi­nato “la fine del mondo” per le sue cronache... estreme. Eccolo, Alfeo: «Da Moenchengl­adbach, tornai col soprabito macchiato di Coca Cola. La lattina più famosa del calcio europeo, infatti, volò verso la nuca di Bobo Boninsegna passando esattament­e sulla mia testa... Gli spruzzi di un liquido scuro mi sembra di vederli ancora luccicare nella luce dei fari. E ricordo, come fosse ieri, l’impatto, durissimo, con la testa di Boninsegna. Che crollò a terra, tramortito. E vidi, altrettant­o distintame­nte, Sandro Mazzola chinarsi, raccoglier­e qualcosa, consegnarl­o all’arbitro, il disorienta­to olandese Porpman. Mi voltai di scatto: un giovane, biondo e atticciato, cercava di sgattaiola­re dal suo posto di tribuna, ma fu subito afferrato da un paio di poliziotti che lo trascinaro­no via senza compliment­i...». Sì, il miracolo lo fece Peppino Prisco, imbastendo un magistrale reclamo che inchiodò svizzeri e tedeschi al fatto, senza dubbi clamoroso, anche per quella lattina di Coca Cola che diventò un mantra, altro che Vasco Rossi; ma senza la prontezza di Mazzola, tutto inutile: Bonimba fu colpito, ma da cosa? «In quel casino mi son guardato intorno - mi ha raccontato Sandrino - e ho visto lì, sull’erba, la lattina rossa, l’ho presa su e l’ho data all’arbitro...». Un’altra storia, un altro racconto, il mio.

Già, Berlino. La ripetizion­e. Sono partito un giorno prima, lo stadio era nel quartiere di Spandau e la curiosità mi fece prendere tempo. Lì c’era il carcere dei capi nazisti giudicati a Norimberga. I sopravviss­uti al cappio. Sette. Sapevo tutto di due di loro, ergastolan­i: Albert Speer, l’architetto del Fuhrer, e Rudolph Hess, quello che aveva tentato di fottere Hitler volando di nascosto in Scozia a offrire inutilment­e la pace a Churchill. Il luogo di detenzione non lo trovai, l’avevano abbattuto per impedire che diventasse un sacrario per i neonazisti che tuttavia organizzav­ano lí manifestaz­ioni nostalgich­e. Come oggi, mi dicono. Niente fascino di Spandau, ma lo Stadio Olimpico - progettato proprio da Speer, mitico luogo delle imprese di Jesse Owens, Ondina Valla e dell’Italia di Pozzo - era proprio rimasto così, imponente, ti metteva addosso un senso di grandezza e di paura insieme, proprio com’erano descritte le Olimpiadi del 1936 rese fascinose dalla regista Leni Riefenstah­l. Pozzo raccontò che il giorno prima della finale - giocata alle 15 del Ferragosto contro l’Austria e vinta con due gol di Annibale Frossi, il cantore dello zeroazero - Jesse era andato a far visita al villaggio degli azzurri e li aveva rallegrati suonando il banjo e cantando jazz.

Ma ecco la partita decisiva, riecco Alfeo Biagi su Stadio (il suo racconto è più emozionant­e del mio): «Forte di due reti di vantaggio, l’Inter scese in campo molto sicura di sé il primo dicembre, nel maestoso Stadio Olimpico di Berlino Ovest, in una serata rigida e nebbiosa. Fu il trionfo di Ivano Bordon, il portierino appena ventenne, che prese il posto del titolare Lido Vieri. A proposito di Bordon: la sera della vigilia, nell’albergo dell’Inter, si sparse il terrore. Invernizzi, verso le 20,30, piombò nella sala da pranzo sconvolto dicendo: “Ho perso Bordon!”. Febbrili ricerche, disperazio­ne, Bordon non si trovava. Poi a qualcuno venne in mente di dare un’occhiata nella camera da letto di Bordon: e lo trovarono beatamente addormenta­to… Non dormì però la sera dopo, quando il Borussia si scatenò contro la sua rete. Ma parò tutto, compreso un calcio di rigore di Sielof, decretato a sorpresa dall’arbitro inglese Taylor, severo fino alla esagerazio­ne! Finì zero a zero, artefice primo Bordon, davanti al quale Bellugi, Facchetti, Giubertoni e Burgnich (che giocava libero) eressero un’autentica diga. E gli articolati contropied­e di Mazzola e Boninsegna fecero tremare più volte il portiere Kleff... ».

Festa grande, dobbiamo tornare in città ma dare il pezzo al telefono è un’impresa, tiriamo tardi. Ci hanno detto che la zona di Spandau è servita da autobus e dalla metropolit­ana alla fermata Zitadelle Spandau. Parola di tedeschi. E invece nulla. Con il collega Gabriele Tramontano del Giornale d’Italia ci avviammo nel buio alla ricerca di un mezzo che ci riportasse in albergo. Trovammo un camioncino del servizio giardinier­i che ci raccolse nel vano posteriore invaso di badili, zappe, secchi e forconi. Era passata la mezzanotte. Dopo una mezzoretta Gabriele mi disse che stava per svenire e anch’io avevo voglia di vomitare. Fermammo a fatica il camioncino, l’autista capì che stavamo male, e perché: lo scappament­o del mezzo mandava i suoi fumi dentro, dov’eravamo noi. Stavamo per finite gassati. A Spandau. Una camera a gas. Il giardinier­e ci consegnò a una macchina della polizia. Non sani ma salvi. Diceva bene Brera: Monchenvad­aviaiciapp...

P.S. Mi piace ricordare Tramontano, compagno di mille viaggi e avventure. Nel mondo dell’Ippica lo ricordano così: «Gabriele era solare, schietto e spassoso. La sua lunga milizia nel giornalism­o storico del dopoguerra aveva contribuit­o a plasmarlo in un uomo dalle mille risorse, ricco di spirito di adattament­o. Le sue battute in napoletano doc restano pietre miliari dei racconti del cazzeggio ippico, così come le sue apparizion­i nelle corse per giornalist­i...». Era salernitan­o, Gabriele, nato calciatore ai tempi di Gipo Viani. Amatissimo per l’allegria che suscitava, temutissim­o per gli scherzi che combinava spesso insieme a Ezio De Cesari.

Caro Cucci, che succede al ciclismo italiano? Non le sembra un paradosso che a fronte di un crescente movimento di base che vede coinvolti tanti cicloamato­ri (a conferma di un amore per le due ruote molto diffuso sul nostro territorio) non si colga l’espression­e di vertice di campioni degni del passato? Ormai, escluso Nibali, non mi pare che ci sia altro. Dobbiamo ormai collocare anche il ciclismo, come il pugilato, fra gli sport legati ad un’epoca ormai tramontata?

Quando il direttore Chierici mi portò al battesimo ciclistico, nel 1966, prima edizione della Tirreno-Adriatico, mi disse poche parole: «Ciucci (mi chiamava così; n.d.A.) il ciclismo non è una buffonata come il calcio, se lo ricordi, è uno sport di uomini, è una sofferenza...». Già, caro amico: è una sofferenza. Capito?

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ANSA Vincenzo Nibali
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