Un uomo potente scivolato sul burro
«La ricevo volentieri, ho voglia di parlare di calcio, mi porti una Marlboro». Ero a Bologna. Salii a Monte Donato, arrivai in villa, mi ricevette la servitù, non c’era nessun altro. Giuseppe Pasquale m’aspettava in una sala disadorna con un largo tendaggio dove si rifugiò, sparendo dalla mia vista, subito dopo un saluto frettoloso e la consegna di una Marlboro che gli avevo acceso. Una. Prima della visita avevo ricevuto solo quella raccomandazione: non lo faccia fumare, una sigaretta al massimo, ha problemi al cuore, potrebbe morire. E lui mi disse: «Mi tolgono tutto, che vita è questa?». Pasquale era un uomo potente anche nel calcio (come imprenditore diventò potentissimo) quando nel 1961, dopo vari incarichi, diventò presidente della Figc. Veniva a Stadio a trovare Aldo Bardelli che l’aveva “inventato”, non si dava arie, in genere passava a ritirare consigli. Poi c’era la cerimonia settimanale, il lunedí, quando si ritrovava a cena da Pedretti, a Casalecchio, con i massimi dirigenti dello sport bolognese, primo fra tutti Giorgio Bernardi, storico arbitro e responsabile dell’Aia prima nella sua città poi a livello nazionale. Li chiamavano “quelli dei calzini bianchi”. Era un decisionista, nel tempo introdusse la Serie A a 16, il blocco agli stranieri e i controlli antidoping: ci cadde il
Bologna, nel ‘64, ingiustamente, e il popolo rossoblù si ribellò accusandolo di essere al soldo di Giorgio Perlasca, presidente di quella che a Bologna chiamavamo Lega Lombarda, guarda un po’; quando poi i rossoblù furono assolti fu proprio lui, Pasquale, a decidere per lo spareggio. (E più tardi, quando Perlasca fu rivelato come “lo Schindler italiano”, l’uomo che aveva salvato dai nazisti migliaia di ebrei e celebrato come eroe, mi sentii in colpa per le accuse che gli avevo rivolto. Ma era proprio lui? La Lega non mi ha mai dato risposta...). La potenza calcistica di Pasquale fu demolita dalla Corea del Nord che cacciò l’Italia dal Mondiale inglese del ‘66: e lui si dimise, lasciò il posto a Franchi, si buttò nell’editoria e nel cinema.
Qualche film?Anonimo veneziano di Enrico Maria Salerno, Sinfonia per un massacro di Jacques Deray, Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli, Operazione San Gennaro di Dino Risi, Gli indifferenti di Francesco Maselli, Contestazione generale di Luigi Zampa, La ragazza di Bube di Luigi Comencini, Sedotta e abbandonata di Pietro Germi,
Uno dei tre di André Cayatte, Vivi o preferibilmente morti di Duccio Tessari (con Nino Benvenuti attore) e Roma di Federico Fellini che fu il suo ultimo film. Andava tutto liscio come il burro ma nel burro cascò e si rovinò: implicato in una vicenda speculativa di commercio del burro col Vaticano (nella quale la sua banca svizzera Vallugano venne coinvolta) fallí e fu arrestato. Ricordo che mi fu portata la notizia una domenica d’estate : «Pasquale arrestato nel suo yacht al largo di Riccione». Ne aveva combinate tante, aveva distribuito benessere a piene mani, ma finí solo e ignorato soprattutto dai giornalisti. Molti dei quali avevano accettato da lui sontuosi contratti “in nero” gestiti proprio dalla Vallugano che, fallita, non pagò una lira. Quella mattina, a Monte Donato, nella sua vestagliona, dimagrito, spento, felice solo un attimo con la sua Marlboro proibita, mi dimostrò la fragilità dei potenti e l’ingratitudine dei cortigiani. Solo uno di quelli non lo tradí, perse tutto ma gli restò amico. E morí prima di lui. Di crepacuore.