Tutto sbagliato tutto da rifare
Nel mio album questa è la figurina più importante: perché non ricorda solo un evento, una storia, una vittoria ma la mia stessa vita. Oggi sono vecchio e Gino Bartali è con me da quand’ero bambino. E c’è ancora, a vent’anni dal suo addio. Gino era un uomo straordinario nella sua semplicità, non un eroe, semmai dippiù, un italiano perbene che ho sempre tenuto nel cuore con il beneplacito compiaciuto di mio padre: era il 14 luglio del 1948 quando con quell’impresa al Tour de France salvò l’Italia che fremeva di sdegno e cercava la rivoluzione per l’attentato a Togliatti. Uno studente, Antonio Pallante, aveva sparato al leader del PCI e stava per succedere il finimondo e quando quarantott’ore dopo Gino vinse la tappa Briançon-Aix Les Bains e il Tour, e la notizia esaltante e calmante fu quella, gradita anche a Togliatti che, operato subito dal professor Spallone, suo amico, aveva superato la crisi. Seppi poi dal notista politico del Tg2, Emmanuele Rocco, nel ’48 portavoce del leader rosso: «Togliatti ammirò l’impresa di Bartali, lo ringraziò ma non gradì che lo si dicesse bartaliano: in realtà era un acceso sostenitore di Coppi». La popolarità di Bartali fu più forte nel campo avverso, perché da pupillo di Pio XII e sostenitore dell’Azione Cattolica, il 18 aprile del 1948 aveva dato il
suo contributo alla storica vittoria elettorale democristiana che aveva allontanato l’Urss staliniana dai nostri destini. Avendoli conosciuti entrambi, potrei dire che Bartali era come Guareschi, cittadini esemplari senza peli sulla lingua, e quando si è saputo che Gino aveva nascostamente aiutato gli ebrei perseguitati dai nazisti non potei ignorare il fatto che Giovannino i nazisti li aveva addirittura subiti nei campi di concentramento fra Germania e Polonia. Eppoi, erano simili anche come leader d’opinione per il loro parlare schietto e sferzante: Guareschi con il “Candido” fustigatore di costumi, Bartali con il famoso “L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare” che qualcuno ha messo in burletta e invece aveva la forza di un editoriale. L’Italia di quei tempi sperimentava la democrazia. i partiti risvegliati o partoriti dalla pace raccoglievano adepti come tifosi, la politica si faceva al Bar Sport mescolandola ai colori delle maglie sportive e a quelli, immutabili, del tricolore. Poi c’era la Costituzione. Che non contenne mai l’amata parola Sport.
Vent’anni dopo conobbi Gino e potei parlargli a lungo. Seguivo il Giro d’Italia 1968, tappa Cesenatico-San Marino, era il 6 giugno: Gino aveva parcheggiato una spiderina rossa e si era seduto in un prato vicino al mio paese, Sassocorvaro, nel Montefeltro. Sulla fiancata dell’auto c’era scritto “Lenzuola Eliolona”, sulla sua maglietta “Lenzuola e federe
Eliolona”, sul cappellino solo “Eliolona”. L’eroe Bartali sfuggito agli onori democratici era diventato uomo sandwich grazie al comune amico Alceo Moretti, giornalista esperto di marketing, amico di Sergio Zavoli. Sic transit gloria mundi, si dice: e invece Bartali non è mai uscito dai cuori degli italiani ai quali continuava a dire la verità. Sí, era tutto sbagliato, tutto da rifare. Era?
L’ultima volta che gli parlai, fu per invitarlo a nome di Stadio, a ritirare il Premio San Silvestro d’Oro a San Prospero, nel modenese.
– Gino, devo mandare a prenderti?
«No, grazie, non preoccuparti, vengo in macchina con Adriana… Scusami, potete ospitarci la notte in albergo? Niente lusso, mi raccomando…».