Corriere dello Sport

Chiamatelo Smiling sorriso da romanista

L’inglese all’arrivo in città ha trasmesso tutta la sua felicità e l’amore per la Roma Trascinand­o Fonseca e i tifosi a sognare un grande futuro Smalling ha voluto fortemente la maglia gialloross­a: «Ho lottato duro per tornare». Tra i giocatori britannici

- Di Giancarlo Dotto

EChris Smalling

30 anni tornerà a guidare la difesa con al fianco Gianluca Mancini ora chiamatelo Smiling. Chris Smiling. L’uomo che sorride. Da quando è apparso a Ciampino. Alla faccia della maschera, gli occhi mostravano tutto. Felicità pura, anche un po’ scomposta, dentro la tuta e i colori giusti. Aveva cominciato a sorridere la sera prima a Manchester e non ha più smesso. Dopo lo strizzone dell’ultima ora. Rideva più che mai ieri a Trigoria, padre prodigo con i figliocci vecchi e nuovi. Ride più che mai Sam Cooke, la moglie modella, pazza da sempre di Roma e dell’Italia. Sorrideva persino Fonseca che negli ultimi tempi era un elegantiss­imo canto triste, una pagina di Saramago. Ridono i tifosi, da sempre innamorati di questo londinese di Greenwich che ha definitiva­mente spostato il suo meridiano nella città che lui e la sua tribù hanno imparato a chiamare “casa” con la stessa intensità esotica ed erotica dell’E.T di Spielberg. «Ho lottato duro per tornare» ha detto e suonava credibile. Incredibil­e. Nel caos nemmeno più così allegro di Roma, uno che il calcio lo ha bazzicato in Aston Martin e poltrone di pelle umana. Che Dio o chi per lui benedica il suo sorriso e lo allunghi a oltranza, a costo di farne il Joker dell’abbraccio e non della frustrazio­ne. Lui che ha sangue giamaicano e Gotham è solo un irreale fumetto.

Tutto bello e giusto, purché sia chiara la lezione di tanto abbraccio, incomprens­ibile solo per gli stronzi a gettone dei social che stanno lì alla tastiera per sfogare quello che non sono nella vita, la bozza di un pensiero, caccole maleodoran­ti di una vita degradata a rutto sociale. La lezione è sempre la stessa da che esiste il pallone. Una sfortunata devianza, segno dei tempi, ha allevato da un lato gli smutandati dell’ingiuria vigliacca, di là, nel parco giochi dell’opinione pubblica, gli ossessi della lezione tattica, i tatticoino­mani. Preoccupan­ti casi umani, direi. Qua e là c’è la stessa orribile cesura, un’insufficie­nza a esistere che si trasforma nella pletora inutile del verbo. Parlano troppo, non avendo nulla da dire. L’amore nascente per l’hidalgo Pedro, ballerino e torero che fotte e ti sfotte, l’abbraccio a Smalling, la treccia che balla, il passo da cow boy che pare lento ma spara sempre per primo, pistola fumante contro le cazzate fumanti, e sarebbe stato il Django

nero di Tarantino in un’altra vita, a conferma che i tifosi, e i romanisti più di ogni altro tifoso, una sola cosa vogliono: invaghirsi di storie e di facce e di uomini da raccontars­i poi in segreto, se sei un bambino e soprattutt­o se non hai mai smesso di esserlo.

Avendo perso tutto, troppo, negli ultimi anni. Tutto quanto ne sosteneva lo scheletro del transfert amoroso, Totti e De Rossi su tutti, gente come Nainggolan, passioni embrionali lì per esclamare come Alisson, Salah, Rudiger, Marquinhos, Emerson Palmieri, lo stesso Pjanic, il tifoso romanista scopre, nell’astinenza, di poter sbandare alla prima finta di Pedro o al primo anticipo che non deve chiedere mai di Smalling. Il calcio è questo, storie da scrivere, ologrammi da vezzeggiar­e. O non è. La storia di Christophe­r Smalling alias Smiling è qualcosa in più. I calciatori britannici si sbriciolan­o per lo più quando spostano i loro imperiali glutei fuori dai confini, soprattutt­o se i Paesi sono latini. Rare eccezioni. A Roma, altra sponda, hanno amato Gaiscogne, un pazzo divino, ma così pazzo e altero da non poterlo mai sentire veramente tuo. Beckham sì, più glamour che calcio. Bale sì, ma quanti rigetti e cattivi umori. Per il resto, decine di fallimenti o esiti mediocri, per non dire impalpabil­i, l’ultimo, il tanto declamato Ramsey alla Juve. Alla Roma era tristement­e transitata l’ombra di Cole. Nel caso di Chris, l’eccezione è totale per quanto è puntuale la regola. Arriva a Roma tra mille dubbi, al solito esternati con gregaria impudicizi­a da chi non palleggia nemmeno uno straccio di dubbio. “Ma dove va? Ma cosa vuole? Ci mancava solo il vegano apallico nella terra dei lupi!”. Indifferen­za, nel migliore dei casi. Bastano poche recite a Smalling per portare dalla sua tutto il mondo che a Roma è scettico di mestiere. Per far capire che lui, il vegano di ferro, tra i lupi è il più lupo di tutti. I più onesti subito, gli altri a ruota, scoprono non solo un ottimo giocatore, sempre molto arguto su dove stare in campo e dove aspettare la palla, scoprono soprattutt­o un leader vero. Uno su cui i Mancini di ieri e gli Ibanez e i Kumbulla di oggi si appoggiano euforici come si fa con la quercia che ti fa ombra e ti parla prima di andare in guerra. E con lui ci vai più forte e il respiro giusto.

Snobbato ingenerosa­mente a casa sua, da quel Manchester in cui era capo e capitano, sacrificat­o alle mode dei nomi prima che diventino sostanza, Harry Maguire, tanto per fare nomi, Chris, due metri quasi di quercia, non si abbatte e porta a Roma il suo passo da bandolero gentile e inesorabil­e. L’averlo perso, quasi ritrovato, poi perso ancora e poi definitiva­mente ritrovato. Non sono queste le più belle storie? Raccontiam­ole.

Mancini, Ibanez e Kumbulla hanno accanto una quercia su cui appoggiars­i

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