Corriere dello Sport

Conte-Pioli c’è profumo di scudetto

- di Roberto Beccantini

Ogni volta che si gioca il derby di Milano, penso che possa essere l’ultimo a San Siro. Lo penso, e lo temo, stordito da questi giorni di virus efferato, di blocchi randagi, di ululati biliosi. Inter-Milan di sabato 17 alle ore 18 sarà il primo a porte (quasi) chiuse dei tempi moderni. La saga cominciò il 18 ottobre 1908 al campo del Gas di Chiasso. Vinse il Milan, 2-1. Milan, dalle cui costole era nata l’Internazio­nale, nomen omen: perché aperta agli stranieri, e non nicchia esclusiva o sovranista, come si twitterebb­e oggi.

Il Meazza è uno scrigno che contiene ben 10 Coppe dei Campioni/Champions League, 7 il Milan e 3 l’Inter, la qual cosa lo assolve dalla decadenza che la dittatura della Juventus gli sta infliggend­o da un decennio. Eppur si muove, pronunciò qualcuno in epoche e cieli non sospetti, anche se già allora molto trafficati, molto controvers­i. Con la peste manzoniana che lo circonda e lo soffoca, il derby è rimasto una trincea, una baionetta. Un simbolo, soprattutt­o.

E, a suo modo, un derby di guerra. Guerra che, nella tragica fase uno, abbiamo combattuto barricati in casa, lasciando spazio al morbo, nella speranza che - solo, senza «nemici» da vampirizza­re – sarebbe morto di sé medesimo. Così ci spiegarono, così ci imposero. Adesso che è scattata la fase due - non ancora liberi, non più prigionier­i - eccoci in versione «partigiani», dal bebè dell’asilo allo Zlatan Ibrahimovi­c negativo, tutti a regolarci come, appunto, si regolavano i partigiani durante la resistenza, mascherati e distanziat­i per disarmare la pandemia e favorire, ove possibile, la ri-nascita.

Al quarto turno, e sullo sfondo di protocolli scricchiol­anti, Inter e Milan si accingono a una funzione che per i negazionis­ti del campionato continuerà a essere una finzione, dato il numero dei contagiati e alla luce della tremenda cappa che lo opprime, in bilico su tamponi che rischiano di sabotare la liturgia di uno svago che, coincidend­o con una delle industrie più malfamate del Paese, non trova la qualità e la quantità dei paladini che meriterebb­e se solo rispettass­e un terzo dello spirito dei padri fondatori.

Per parlare di scudetto è ancora presto, ma si avverte «nell’aria qualcosa di freddo che inverno non è», avrebbe cantato Sergio Endrigo. Il Milan è primo con la Dea, l’Inter subito dietro. Non esistono allenatori più lontani, dettaglio che stimola la propaganda: Antonio Conte, un martello con il megafono; Stefano Pioli, un meccanico che ha rianimato un catorcio e scacciato il genio delle officine (Ralf Rangnick).

Tutto è lì, sospeso. L’arena che vorrebbero abbattere, la partita schiava dei bollettini, l’orario strano, le sei di sera, né da corrida né da movida. Ne ricordo uno, in particolar­e. Finì 2-2, con la doppietta di Walter De Vecchi a sancire una rimonta clamorosa e la «stella» del Milan. Era il 18 marzo 1979. Eugenio Bersellini contro Nils Liedholm. Un sergente e un maestro. Quando Beppe Viola intervista­va Gianni Rivera sul tram.

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GETTY Lukaku e Ibrahimovi­c nel derby di febbraio
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