Conte-Pioli c’è profumo di scudetto
Ogni volta che si gioca il derby di Milano, penso che possa essere l’ultimo a San Siro. Lo penso, e lo temo, stordito da questi giorni di virus efferato, di blocchi randagi, di ululati biliosi. Inter-Milan di sabato 17 alle ore 18 sarà il primo a porte (quasi) chiuse dei tempi moderni. La saga cominciò il 18 ottobre 1908 al campo del Gas di Chiasso. Vinse il Milan, 2-1. Milan, dalle cui costole era nata l’Internazionale, nomen omen: perché aperta agli stranieri, e non nicchia esclusiva o sovranista, come si twitterebbe oggi.
Il Meazza è uno scrigno che contiene ben 10 Coppe dei Campioni/Champions League, 7 il Milan e 3 l’Inter, la qual cosa lo assolve dalla decadenza che la dittatura della Juventus gli sta infliggendo da un decennio. Eppur si muove, pronunciò qualcuno in epoche e cieli non sospetti, anche se già allora molto trafficati, molto controversi. Con la peste manzoniana che lo circonda e lo soffoca, il derby è rimasto una trincea, una baionetta. Un simbolo, soprattutto.
E, a suo modo, un derby di guerra. Guerra che, nella tragica fase uno, abbiamo combattuto barricati in casa, lasciando spazio al morbo, nella speranza che - solo, senza «nemici» da vampirizzare – sarebbe morto di sé medesimo. Così ci spiegarono, così ci imposero. Adesso che è scattata la fase due - non ancora liberi, non più prigionieri - eccoci in versione «partigiani», dal bebè dell’asilo allo Zlatan Ibrahimovic negativo, tutti a regolarci come, appunto, si regolavano i partigiani durante la resistenza, mascherati e distanziati per disarmare la pandemia e favorire, ove possibile, la ri-nascita.
Al quarto turno, e sullo sfondo di protocolli scricchiolanti, Inter e Milan si accingono a una funzione che per i negazionisti del campionato continuerà a essere una finzione, dato il numero dei contagiati e alla luce della tremenda cappa che lo opprime, in bilico su tamponi che rischiano di sabotare la liturgia di uno svago che, coincidendo con una delle industrie più malfamate del Paese, non trova la qualità e la quantità dei paladini che meriterebbe se solo rispettasse un terzo dello spirito dei padri fondatori.
Per parlare di scudetto è ancora presto, ma si avverte «nell’aria qualcosa di freddo che inverno non è», avrebbe cantato Sergio Endrigo. Il Milan è primo con la Dea, l’Inter subito dietro. Non esistono allenatori più lontani, dettaglio che stimola la propaganda: Antonio Conte, un martello con il megafono; Stefano Pioli, un meccanico che ha rianimato un catorcio e scacciato il genio delle officine (Ralf Rangnick).
Tutto è lì, sospeso. L’arena che vorrebbero abbattere, la partita schiava dei bollettini, l’orario strano, le sei di sera, né da corrida né da movida. Ne ricordo uno, in particolare. Finì 2-2, con la doppietta di Walter De Vecchi a sancire una rimonta clamorosa e la «stella» del Milan. Era il 18 marzo 1979. Eugenio Bersellini contro Nils Liedholm. Un sergente e un maestro. Quando Beppe Viola intervistava Gianni Rivera sul tram.