Nella fortezza Bergamo «Il virus non passerà»
Dalle Nazionali d’Italia e Olanda un omaggio congiunto alla città che più ha sofferto per l’epidemia E che adesso resiste con disciplina e senso civico al ritorno della minaccia Tra marzo e aprile 6.000 vittime, oggi pochi contagi Il simbolo ora è l’alber
Dal cedro del Libano che giganteggia all’ingresso del cimitero monumentale, come spruzzato da questa brezza d’autunno, si sparge intorno, naturalmente, del polline, giallo. Sottile, prima di evaporare, non invisibile come il virus che qui è stato a lungo di casa, nella sua zona rossa preferita. A fine luglio l’amministrazione comunale ha stanziato 430.000 euro per allestire un nuovo campo per le sepolture. Qui, all’ombra della straordinaria architettura eclettica pensata da Ernesto Pirovano ed Ernesto Bazzaro oltre un secolo fa, ieri intorno a mezzogiorno una delegazione congiunta italo-olandese ha deposto due corone di fiori, omaggio alle migliaia di vittime bergamasche della pandemia. Mancini, Oriali e Vialli si sono stretti al presidente della Knvb, Just Spee, e al segretario generale della stessa federcalcio orange, Gijs de Jong, in raccoglimento. Con loro, il sindaco Gori e il presidente dell’Atalanta, Percassi, per qualche momento in silenzio davanti alla lapide, svelata dal Presidente Mattarella, il 28 giugno scorso, con incisa la preghiera, Tu ci sei, di Ernesto Olivero, fondatore dell’Arsenale della Pace di Torino.
Un lutto profondo, scavato nell’anima della città, come le valli della Bergamasca. Eppure, Bergamo in questo momento non è più la capitale italiana della Covid 19. Lo dicono i numeri della nuova ondata pandemica, prima di tutto, che fotografano un territorio accerchiato ma capace di resistere. Il direttore sanitario dell’Ospedale Giovanni XXIII, Fabio Pezzoli, ieri spiegava così la situazione: «Siamo circondati ma pronti, dopo l’emergenza di marzo e aprile. In tutta la Bergamasca non ci sono incrementi significativi di casi Covid, con 4 ricoverati nell’area critica, tra intensiva e subintensiva. Diciamo che qui si è sviluppata una sorta di immunità diffusa. Ma guai ad abbassare la guardia. Dobbiamo insistere nei comportamenti virtuosi».
VIRTÙ E NECESSITÀ. E la sensazione è che qui abbiano capito, sulla propria pelle, cosa occorra fare. Certo, gli indicatori economci restano incerti, dopo i 6.000 posti di lavoro cancellati dal lockdown. Da valutare il significato di un dato legato al mercato immobiliare, da sempre importante in città: Bergamo (fonte Immobiliare.it)
è in questo momento la quarta provincia italiana (su 107) per numero di abitazioni in vendita (23.000), dopo metropoli come Roma (70.000), Milano (48.000), e Torino (43.000).
E’ come se la città comunque avesse messo la sordina, insieme alla mascherina, indossata ovunque e da tutti, senza differenza di genere e generazione. Traffico, un tempo caotico, ora limitato e scorrevole, vita ridotta ma ripartita. Davanti al liceo delle Scienze Umane e Musicale “Paolina Secco Suardo”, ci sono adolescenti con le pulsioni dell’età, quella voglia di contatto e sbruffonate, tutti però rigorosamente mascherati, mentre dalle finestre arriva il suono sommesso di una lezione di flauto. Nel giardino davanti all’istituto, come ricorda una targa, è stato piantato un albero di kaki di Nagasaki, generato da quello miracolosamente superstite alla bomba atomica, “esempio di forza e tenacia”. Quelle che i bergamaschi si scambiano con gli sguardi.
SGUARDI. A proposito di sguardi, senza dubbio, uno tra i più pronti a leggere acutamente ciò che stava accadendo sette mesi fa è stato quello di Isaia Invernizzi, 33 anni, appena premiato con il Dig Award, cronista di punta dell’Eco di Bergamo, storico specchio della città. Le sue inchieste, al di là dei dati ufficiali della Regione Lombardia, hanno dato per prime il senso della catastrofe in corso (con metodo deduttivo e analisi dei dati), costata 6.000 vittime nella provincia tra marzo e aprile. Dal suo punto di osservazione, Invernizzi conferma l’attuale tenuta del sistema Bergamo: «La media di contagi si è attestata intorno ai 40 giornalieri, quella degli ospedalizzati è bassa. Questo è il frutto della grande paura di un ritorno all’emergenza che ha accompagnato i bergamaschi per tutta l’estate. E’ cresciuta la soglia di attenzione. Non si può negare che tra febbraio e marzo la religione del lavoro, fortissima in queste zone, abbia pesato sul ritardo nelle chiusure di molte attività. Ma adesso c’è in tutti la consapevolezza del rischio. E la volontà di non essere di nuovo travolti».
BERGAMO CINA. Si guarda intorno anche Roberto Donadoni, grande bergamasco del calcio, significativamente presente nelle due precedenti partite della Nazionale all’allora Azzurri d’Italia, da calciatore nel 1987 e da ct nel 2006. Quando è esplosa la pandemia, lui per un gioco del destino era in Cina, allenatore dello Shenzhen, club dell’omonima cittadina del Guangdong: «Il paradosso è che lì la pandemia non è arrivata mentre a Bergamo si moriva più che a Wuhan. Ero molto preoccupato. Qui c’era mia madre, c’erano i miei familiari. Si è spento il mio ex suocero, come la mamma del mio collaboratore Andreini, alla quale, pur se negativa, è stato vietato il funerale. In quelle settimane ho cercato di far arrivare al mio paese, Cisano Bergamasco, del materiale sanitario: mascherine, tute, occhiali, respiratori. Spedizione certificata ma bloccata in dogana perché non si capiva se applicare l’Iva al 18 o al 22%. Per una donazione... Sono servite due settimane per risolevere il problema».
Donadoni è rientrato il 16 agosto, dopo la fine anticipata della sua ultima esperienza tecnica: «E ho ritrovato la mia Bergamo, col carattere che mi aspettavo, la dignità e lo spirito di collaborazione giusti. E il senso civico e l’educazione che dovremmo avere tutti, senza bisogno di aspettare le direttive dal Governo». Ha ritrovato anche l’Atalanta in testa alla classifica. Un fatto non casuale né transitorio, per Donadoni: «Io credo che ci sia un rapporto tra il primato e lo slancio che arriva dagli eventi negativi sofferti dalla città. Anche se non ci sono bergamaschi in squadra, lo spirito del gruppo è quello della mia gente. E per noi, per me, è un grande motivo di orgoglio e di speranza».
Donadoni: «Rivedo lo spirito della mia gente nell’Atalanta E sono orgoglioso»