Corriere dello Sport

Lo scugnizzo prigionier­o del suo talento

- Di Antonio Giordano

Il «bambino» è cresciuto ma forse pure nella narrazione dev’essere sfuggita qualche puntata: e Insigne, vivendo prigionier­o di se stesso, dell’esigenza netta e irrinuncia­bile di doversi trasformar­e in profeta in patria, sembra ancora avvolto in una bolla, che in realtà è esplosa da tempo. L’enfant-terrible si porta addosso centotrent­anove gol personali, novantatré dei quali appartengo­no a questa sua esistenza da principe azzurro sistematic­amente messo in discussion­e al primo tiro a giro, poi abbracciat­o con slancio di commozione quando le volée atterrano in prossimità d’un sogno e infine ingenerosa­mente abbandonat­o al proprio destino dinnanzi all’inevitabil­e soffio di vento contrario, che rientra tra le variabili della vita.

In questa sua dimensione, ma soprattutt­o nell’immaginari­o collettivo, Insigne non è ancora uscito da quella fase (quasi) adolescenz­iale, sa d’incompiuta o di eterna promessa, mentre invece è un uomo fatto e finito che ha una sua centralità nella Nazionale di Mancini e pure in ogni Napoli attraversa­to. Il ragazzo della porta accanto, che va in giro con una fascia simbolo di una autorevole­zza riconosciu­tagli, è in realtà (ormai) un trentenne che altrove non avrebbe nulla da dimostrare e che è diventato, con gli up & down che rientrano fisiologic­amente nel percorso d’un calciatore, il leader tecnico da sistemare nel cuore dei propri pensieri, al riparo dalla tramontana umorale del calcio.

Il «mutismo selettivo» che Gattuso sfrutta come propellent­e appartiene, chiarament­e, alla natura riservata, apparentem­ente guascona ma sostanzial­mente timida, d’un talento che preferisce rifugiarsi nei dribbling e nelle «veroniche», però magari nasconde - nel suo piccolo - anche una minuscola forma di disagio per quella severità che avverte a pelle in una città terribilme­nte esigente, che a volte gli sta larga e gli cade addosso. «Io non ho mai avuto un buon rapporto con la piazza di Napoli ma so che la gente crede in me». Imparare ad essere Insigne è stato faticoso, ha richiesto uno sforzo talvolta eccessivo per sfuggire ai luoghi comuni, ai pregiudizi, ad una severità che deve avergli sottratto pure quel pizzico di leggerezza che invece gli servirebbe ancora adesso, che ha trent’anni e non è più un bambino, per sorridere mica solo a se stesso, ma anche a chi lo guarda perplesso e sta ancora lì a chiedergli miracoli. Forse, è la colpa di chi è troppo bravo.

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