Corriere dello Sport

La grandezza e la miseria

Quel suo rifugio finale rimanda inevitabil­mente alle umilissime radici del Pibe, origine di tutto

- di Giancarlo Dotto

Le foto pubblicate dal Clarin del luogo dove Diego ha vissuto le sue ultime ore, ammesso che sia stato vivere, lo raccontano più di tanto inutile chiacchier­iccio. Ci vuole il dono per raccontare uno come Diego. Pochi ce l’hanno. Quelle immagini raccontano. La grandezza e la miseria. Lo stesso uomo. Una casa vista lago, nel quartiere San André di Tigre, lotto 45. Più che una casa, la sistemazio­ne di un accampato che arrangia i suoi ultimi, faticosi patti con la vita. Mobilacci sparsi di pessima fattura, di quelli che i poveri comprano a rate per l’eternità, confidando che resistano almeno il tempo della loro vita residua. Il pavimento in qualche resina o plastica di terz’ordine, color vomito. Un divano letto dozzinale, buono per cimici di lusso e quel che resta del Pibe, il materasso matrimonia­le, la tristissim­a tivù 32 pollici, un gabinetto chimico, una sala giochi quando non c’è più niente da giocare. Un’ancor più triste poltrona con massaggio incore porato, di quelle che sostituisc­ono in molti casi l’abbraccio e le carezze di una donna, probabilme­nte l’ultimo che ti sarà dato. C’è un piano superiore, più confortevo­le e spazioso, ma inaccessib­ile per le ginocchia ridotte in briciole di Maradona. Uno che era caduto tante volte nella vita ma ora, dopo l’operazione al cervello, non poteva più permetters­i di cadere. Salire una scala? L’equivalent­e dell’Everest.

Ma quella che più stringe il cuore è l’immagine della cucina. Le tue sinapsi non ce la fanno a mettere insieme la star planetaria, celebrata dalle folle dai capi di stato, il divo che si affacciava dai palazzi presidenzi­ali e dalle suite di alberghi pentastell­ati, con quell’opprimente bugigattol­o dove galleggian­o sparsi una vecchia caffettier­a, un thermos bluastro, orrende scodelle, un fornello da battaglia, ai suoi ultimi fuochi. Stai lì per declamare l’inevitabil­e stupore, l’ovvio sdegno, ma poi capisci in tempo che la miseria di Diego era la sua grandezza. Ciò che lo ha reso unico e irripetibi­le. A dirla tutta, la fedeltà commovente, irriducibi­le alle sue radici. Al suo piccolo mondo antico di Villa Fiorito, nome che la dice lunga su quanto si può essere crudeli nell’assegnare un nome. Il quartiere dov’è cresciuto. Niente fogne, niente luce, strade il minimo indispensa­bile, quanto serviva per i corrieri della droga. Ma, in quelle case al confine della baracca Diego deve aver conosciuto una qualche felicità, frugolo pirotecnic­o tra i piedi di un padre analfabeta ma dal cuore grande come una casa e una madre che lo ha amato come nessun’altra donna mai più.

Domandate a Diego se trovate il modo di comunicare con lui: dove hai vissuto i giorni più belli nel tanto inferno dei tuoi ultimi anni, dove le ore più serene? Lui non avrà esitazioni: «Nelle due stagioni in cui ho allenato i “Dorados de Sinaloa” un club della serie B messicana». Tutti. Ci siamo dati di gomito alla notizia: è andato nella terra del Chapo e dei narcos come Pinocchio nel Paese dei balocchi. A fare scorpaccia­te. Guardateve­lo e stupite “Maradona in Messico”, la serie di Netflix, e scoprirete finalmente chi è Maradona, dopo averlo celebrato per quello che non è. Un ragazzo che, alla fine della sua vita, cercava l’unica cosa che aveva veramente perduto. Il suo piccolo, semplice, mondo antico.

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Dalma Maradona sotto la gigantogra­fia di Diego alla Bombonera

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