Il punto d’incontro quotidiano tra un grande giornalista e i lettori del Corriere dello Sport-Stadio post@corsport.it italocu39@me.com
Ciao Italo, questo è stato, per noi, un Natale diverso. Gli altri anni ci si riuniva tutti per il cenone e per lo scambio dei regali.Ora,invece,ognunoacasa propria collegati via whatsapp per cenare e chiacchierare tra noi. Poi scambio dei doni virtuali a distanza. In questo caso viva la tecnologia. Ma ci mancheranno i baci e gli abbracci. Siamo tutti in zona rossa. Non ci azzardiamo a “fare la vasca” in centro per non creare assembramenti. Usciamo solo per fare due passi intorno all’isolato con l’autocertificazione. Abitando vicino al mare arriviamo fino in spiaggia per respirare un po’ l’Adriatico e poi ritorno. Sperando che la situazione migliori.
Nella primavera del ‘45 ci dissero che la guerra era finita. Non era vero. Erano solo passati a prendere mio padre, impiegato statale, per portarlo a Urbino, nel Palazzo Ducale che ospitava gli epurati. Collaborazionismo. In effetti fino a pochi giorni prima eravamo con i tedeschi. Occupanti di quel pezzo di Romagna al centro della Linea Gotica. Da un anno e mezzo. Eravamo fortunati: in piena campagna non ci mancavano frutta, verdura e le uova di poche galline salvate dagli appetiti dell’invasore. Se volete sapere com’era il lockdown a quei tempi, dico nel paese dove eravamo rifugiati - Poggio Berni, si chiama - si poteva uscire di casa, o dal rifugio, ma era sconsigliabile: una bomba, una mitragliata o una fucilata non mancavano mai. Il coprifuoco una cosa seria, con il buio s’accendevano fuochi sulle colline, spesso suonava la sirena, i soldati tedeschi correvano qua e là poi si fermavano e dal buio pesto arrivavano voci giovani e amare che cantavano “Lili Marleene, tutte le sere sotto quel fanal...”.
Arrivarono gli americani, gli inglesi, gli scozzesi, i neozelandesi, gli indiani, e ci dettero pane bianco a cassetta, carne in scatola. E sigarette. Non per me, naturalmente. Gli adulti di casa fumavano tutti. Dicevano che il fumo faceva passare l’appetito. Con la fame ci si contavano le costole e ogni giorno ce n’era una in più. Finalmente trovammo un camioncino che ci portò a Rimini. Ci era rimasto solo un baule con la biancheria. Almeno mia madre era soddisfatta. Il resto ce l’avevano rubato. Gli italiani. Arrivammo a Rimini. La città non c’era più, solo l’Arco d’Augusto, il Ponte di Tiberio e mezzo Tempio Malatestiano. Il resto, rovine. Gli alleati avevano bombardato città e dintorni 360 volte, dal novembre del ‘43. Forse ispirati da Mussolini che aveva inveito contro Rimini definendola “feccia della Romagna e rifiuto delle Marche”. E invece era lì, a pezzi, ma trovammo un villino bucherellato in mezzo alle macerie, vicino a Viale Tripoli proprio dov’erano le Officine Locomotive che gli alleati avevano scambiato - senza mai cambiare idea - credo per una fabbrica di armi. Così come avevano scambiato l’Abbazia di Mantecassino per un fortilizio dei tedeschi. (Quando mio padre tornò dal... collegio disse “quando faranno la prossima guerra diamogli una guida turistica”).
Sì, Rimini aveva resistito. La spiaggia e il mare c’erano e in fondo, prima del porto scon