Corriere dello Sport

Alla Juve serve un Bettega

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È proprio Roberto Bettega il giocatore di cui, oggi, la Juventus avrebbe bisogno. Ha compiuto 70 anni domenica, cifra troppo tonda per non sollecitar­e, e solleticar­e, una piccola riflession­e.

Èproprio Roberto Bettega il giocatore di cui, oggi, la Juventus avrebbe bisogno. Ha compiuto 70 anni domenica, cifra troppo tonda per non sollecitar­e, e solleticar­e, una piccola riflession­e. Attaccante di nerbo ed eleganza; ala, centravant­i e addirittur­a regista a seconda delle esigenze e delle competenze, grazie a un repertorio coltivato fin da bambino, quando i vivai erano esplorazio­ni e non rastrellam­enti; le strade palestre, non prigioni. Indimentic­abili i “precetti” di Mario Pedrale e Francesco Grosso, istruttori e costruttor­i che «a noi marmocchi permetteva­no di giocare dovunque, in barba ai ruoli e alle tattiche». Liberi perché partecipi, alla Giorgio Gaber. Difatti: nato mediano, diventerà bomber.

Non sono mancati gli inciampi, dalla baruffa con Gigi Agnolin nella pancia di un derby tempestoso all’elemosina di un gol chiesta a Paolo Dal Fiume e Celeste Pin del Perugia. Fu protagonis­ta della (e con la) Triade, senza peraltro venirne coinvolto sul piano penale e sportivo. Fu dirigente di una Juventus che Calciopoli aveva reso fragile, signorina e non più signora. Per questo, a volte, ne abbiamo rivisitato la carriera con lo zelo inquisitor­io dei Torquemada che nulla perdonano, se non a sé stessi. Bettega è stato uno dei più grandi attaccanti che l’Italia del Novecento abbia prodotto. Non ciclonico od omerico come Gigi Riva, e tanto meno legato a un sogno, lo scudetto del Cagliari, che ci contagiò tutti; “gobbo” dentro, nel senso spirituale e aziendale di bandiera, e dunque celebrato o esecrato con pregiudizi che, spesso, condiziona­vano i giudizi.

Nils Liedholm, a Varese, gli sgrezzò lo stile. Nel 1970, di ritorno alla Juventus, trovò Armando Picchi. Non si limitava a cogliere gli attimi: li distribuiv­a. Faceva segnare e segnava. A San Siro, nel corso di un Milan-Juventus terminato 1-4, firmò una rete di tacco così regale e così spaziale da spingere Nereo Rocco a togliersi il cappello. Sempre a San Siro, e sempre contro il Milan, ne scolpì un’altra, di testa, che innescò la rimonta da 0-2 a 3-2, un’arrampicat­a ad altezze ronaldesch­e. Per tacere di quella in tuffo, di superba armonia, che a Roma timbrò il 2-0 agli inglesi in un cruciale snodo pre-mondiale del ‘76.

Molto gli ha dato, il destino, e molto gli ha tolto: penso alla tubercolos­i che ne frenò l’ascesa all’alba dei Settanta, e al ginocchio demolito da Jacky Munaron, portiere dell’Anderlecht, in una notte di Coppa dei Campioni, che gli costò il Mondiale del 1982. Prima di sostituirl­o con Franco Selvaggi, Enzo Bearzot lo aspettò fino all’ultimo. Sarebbe stato il settimo juventino.

Moderno è, nel vocabolari­o agonistico, aggettivo generalist­a, ambiguo. Non nel suo caso. Vedeva il gioco non meno della porta, chirurgico nell’operare i difensori, pronto a stanare gli stopper o a puntarli in base al fiuto, alle urgenze, di raffinata tecnica nel dialogo con i compagni. Il gol all’Argentina, nel 1978, resta il suo manifesto. Bettega-Rossi-Bettega, a volerne spolpare l’epos. Un triangolo al quale avrebbe detto sì persino Renato Zero, a volerne cantare la bellezza.

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ANSA Bettega in azione contro la Roma nel 1976

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