«ORGOGLIO E DIALOGO L’AIA CHE VORREI»
Il 14 febbraio arbitri al voto: parla il candidato che sfiderà Nicchi dopo 11 anni di presidenza
«Non sono il nuovo, ma l’esperienza che porta al nuovo». Il nuovo che avanza si chiama Alfredo Trentalange, ma solo per comodità di espressione. La sua candidatura alla presidenza dell’Aia (il 14 febbraio sfiderà Marcello Nicchi, in carica dal 2009, al terzo mandato e alla quinta corsa elettorale) è, in realtà, il riassunto di un movimento, un progetto, una squadra nella quale le parole «condivisione, progettualità, confronto, trasparenza» fanno da stella polare alla strada che sarà percorsa. A iniziare dalle sezioni, quella base della quale ci si ricorda solo quando c’è da “mungere” voti ma che in realtà rappresenta il volano dell’Associazione. Un percorso lungo, da fare in condivisione con la Federcalcio, la Uefa e la Fifa, per riportare gli arbitri italiani nel mondo. Perché ricostruire dalle macerie non è facile. Progetti, giovani, VAR, Covid, elezioni federali. Un’ora e mezza per spiegare e spiegarsi.
Trentalange, 63 anni, dal 1972 nel mondo Aia come arbitro, dirigente e ora candidato presidente. Le dico subito: quale mondo nuovo, sempre i soliti...
«Il nuovo è un processo che non nasce dall’oggi al domani, non s’improvvisa. Il nuovo si costruisce. E l’amore per questo senso di appartenenza che s’è smarrito mi porta a dire che possiamo essere noi i formatori di quello che verrà. Il presidente dell’Aia non può durare più di due mandati, otto anni al massimo sono sufficienti per formare chi ti dovrà sostituire».
L’impressione è che bisogna mettere le mani un po’ ovunque, dal reclutamento agli arbitri di vertice.
«Ma non si può arrivare ai secondi senza passare per i primi. E’ una questione di condivisione, di confronto, di progettualità. Abbiamo perso quasi cinquemila associati negli ultimi anni. Condividere, spiegare anche punti di vista differenti affinché siano una risorsa, è politica allo stato puro, altrimenti è avarizia. Non sarà semplice, ci sono ruoli e evoluzioni diverse».
Gli arbitri vengono ancora percepiti come un mondo esterno nel sistema-pallone. Così si creano divisioni, contrasti, violenza. «E’ un problema culturale: comunicazione, ignoranza, scarsa attenzione a quello che potrebbe unire. Spesso i malintesi nascono dalla buona fede basata su presupposti sbagliati. Un esempio: nel calcio, una rimessa effettuata non nel punto giusto dà il possesso del pallone alla squadra avversaria. Cosa bisogna fare? Per il regolamento, il cambio di possesso; il buon senso invece suggerisce di anticipare e spiegare che la posizione è scorretta. Cosa sarebbe più giusto?».
E allora la ricetta qual è? «Bisognerebbe fare i ricercatori e non i presuntosi. Io per anni ho predicato tecnica, etica, umanizzazione. Oggi non si possono fare cose nuove e diverse se non siamo noi nuovi e diversi. Noi siamo l’esperienza che porta al nuovo. C’è bisogno di condivisione, ma quella vera. E si deve lavorare per la trasparenza, per il senso di appartenenza. Non è possibile perdere 5mila associati, come accaduto negli ultimi anni».
E’ diventato arbitro a 15 anni: la motivazione che l’ha portata a volersi rimettere in gioco è sempre la stessa? «Sì, ed è la passione per il calcio. Giocavo mezz’ala, ai miei tempi ero un numero 8. Feci anche il provino per una squadra di Torino che ha i colori granata... Mi dissero: “O arbitro o giornalista”. Scelsi il primo e sapete per cosa? Per quel senso della giustizia che ognuno ha dentro di sé, per la possibilità di portare la “pace” in quella che può trasformarsi in una battaglia, perché si fa presto da un calcione non sanzionato ad arrivare alla rissa. Valori universali che un ragazzino impara sul terreno di gioco. Non è stato facile. Quando ero in serie A, tornavo a casa e mia figlia mi diceva: “Perché devo prendere 6 quando tu prendi 4?”. Fare l’arbitro è un’opportunità di crescita in un mondo che ne dà poche».
Arbitri uguale autoreferenzialità. Abbiamo sempre sentito dire che siete i più bravi, i più forti, quelli che anche quando sbagliano, alla fine sbagliano poco.
«Ci sono radici storiche e culturali. Noi molto spesso siamo presuntuosi, è anche un problema di autodifesa per mantenere autonomia. Ma sono maturi i tempi per iniziative di tipo innovativo, per strategie da condividere con Figc, Leghe e Settore Giovanile. Bisogna formare i formatori, è uno degli aspetti più importanti. Vorrei creare un Forum con i presidenti per mettere in comune esperienze e competenze».
Partendo dalle sezioni. «Disegniamo insieme il futuro. Il modello non può essere il passato, ci vuole un’apertura diversa. Vivere l’altro, dal giocatore al dirigente, non come una controparte. La violenza si combatte a livello culturale, facendo capire anche le tue criticità e le tue fragilità. Magari andando allo stadio un’ora prima e fermarsi un’ora dopo a parlare con gli altri. Il lavoro di una figura come quella di Rocchi è prezioso, ma se non parliamo la stessa lingua (come diceva Don Milani), se ci poniamo in modo arrogante, non andiamo da nessuna parte. Sono cose che vanno costruite nel tempo, e avere il coraggio di farle, senza avere paura».
Siete rimasti nel vostro fortino, però, mentre intorno il mondo, non solo il calcio, cambiava.
«Il calcio è cambiato, noi spesso lo rincorriamo. Invece va governato, capito, studiato».
Trentalange candidato presidente: perché?
«Per condividere l’esperienza fatta in questi anni, insieme con altre persone che faranno parte della squadra, anche di chi la pensa diversamente, in piena libertà. Di cosa bisogna avere paura? Mettiamoci in discussione, parliamo, ascoltiamo quello che viene dalla base, dal territorio, dai bisogni dei ragazzi».
Troverà le macerie...
«Non mi interessano le critiche al passato, conta il futuro. Un futuro trasparente. Dobbiamo costruire un palazzo libero, dove - ad esempio - si conoscano i voti dati agli arbitri, gli emolumenti. Bisogna riformare il ruolo degli Osservatori e coinvolgere le società per quello dei dirigenti. I presidenti di sezione vanno ascoltati, e non solo quando ci sono le campagne elettorali. Non dobbiamo perdere risorse importanti, troppi arbitri d’élite hanno lasciato l’AIA».
Bisogna lavorare sui giovani? «Certo, sui giocatori di domani. A sei anni inizi, ma fino a 15 non puoi fare l’arbitro. In questo periodo, si potrebbe insegnare ai giovani qualcosa di importante, dai dettagli tecnici al rispetto delle regole. Magari arrivando - in collaborazione con il Settore giovanile - a far frequentare il corso arbitri agli Under 14 o agli Under 15. La diversità può essere una risorsa, ma non dobbiamo avere paura se si ha il coraggio».
Progetto giovani, dunque, per ripartire.
«Si può fare se c’è formazione con calciatori, tecnici, dirigenti, se prendiamo accordi con il Settore giovanile e scolastico, creando non una cultura della contrapposizione, ma della condivisone, dove il tuo problema è anche il mio e viceversa. Addirittura pensiamo anche al doppio tesseramento nel settore giovanile, che storicamente è non competitivo. In Inghilterra, ogni società propone arbitri dal settore giovanile. Tutte cose che si possono fare, e che sono alla lunga un deterrente alla violenza».
La classe arbitrale di vertice è in piena crisi: la classe dirigente che ha governato l’AIA non ha prodotto un solo arbitro di primo livello... «Ripeto, non mi interessa criticare, ciascuno si assuma le proprie responsabilità. Ma è indubbio, e ci sono i dati a testimoniarlo, che a livello Élite in Uefa abbiamo un solo arbitro (Orsato, ndr). Se guardo il ranking degli ultimi 15, 20 anni, avevamo più arbitri nelle categorie di vertice. Ma ora mi preoccuperei di approfondire il discorso della formazione. È un dato di fatto che abbiamo un solo arbitro. Certo, uno come Rocchi avrebbe potuto arbitrare un altro anno, così che l’Italia avrebbe avuto due suoi rappresentanti agli Europei. E la Uefa sarebbe stata d’accordo...».
Andiamo in campo: il VAR angelo o demone? «Un’opportunità verso la giustizia. È triste vedere una partita condizionata da un errore clamoroso. Ma è uno strumento nuovo, che va utilizzato: non si conosce ciò che non si sperimenta. Se non si utilizzasse per presunzione, sarebbe un errore. Così come non ho mai creduto che gli arbitri fossero contrari alla tecnologia. Dal 1973 non ho mai sentito un arbitro contrario al “gol-non gol”. Eppure l’ho sempre letto. Il VAR è uno strumento formidabile, poi è chiaro che l’arbitro più bravo è quello che non ha bisogno del VAR. Però diamo agli arbitri il diritto di sbagliare».
Ma l’arbitro che sbaglia e va al VAR, attualmente, viene penalizzato (Gavillucci docet).
«Il metro di giudizio va rivisto. La Uefa, ad esempio, è estremamente equilibrata, tiene conto di tutto il percorso dell’arbitro e non solo dell’evento singolo. Infatti ci sono due voti. E non può essere uno soltanto a decidere, ma più persone che si mettono intorno al tavolo».
Avete voluto le elezioni, anche quando qualcuno ha provato lo slalom gigante per evitarle, in nome della Pandemia. Il 14 si vota, come si affronta questa partita?
«Con grandissima serenità, competenza, rispetto delle persone e della situazione del momento. Adesso, pensiamo sia più importante la sicurezza e la salute delle persone. Solo l’altro ieri è mancato un nostro associato di 52 anni per Covid, ci sono persone e famiglie in grande sofferenza. Noi siamo i garanti delle regole e le regole bisogna rispettarle. Ancora non sappiamo come, ma ha più senso una votazione non in presenza. Anche la campagna elettorale si farà on line perché bisogna avere rispetto delle regole. Abbiamo massima fiducia nella Figc e nel sistema di votazione, come nella commissione elettorale. Il rispetto delle leggi è la base del Dna di un arbitro».
Il Covid ha stravolto le vite di tutti, il sistema-calcio ha retto.
«Ci sono state persone brave e capaci. Mi sono stupito di tanta organizzazione, di tanta efficienza. Il sistema ha risposto con responsabilità, rispetto delle regole, visione rivolta al futuro. Certo, non tutto è andato bene. Sicuramente dal punto di vista arbitrale, soprattutto di quello di base, c’è stata una sofferenza sopportata con grande responsabilità. Magari si sarebbe potuto fare meglio, una vicinanza maggiore sul territorio».
Dalla scuola allo sport, i più giovani sono stati penalizzati.
«Il Covid ha creato un danno generazionale, dovremmo porre più attenzione ai giovani. Noi come AIA siamo impegnati con le piccole/grandi sezioni. Ce la faremo sicuramente, dobbiamo trasformare i problemi in risorse. Solidarietà vera, più voglia di tornare alla normalità. I giovani sono sempre i migliori».
L’AIA è arrivata all’ultima curva utile per votare, e subito dopo di voi toccherà alla Federcalcio. La domanda...
«Alt, la fermo subito. L’AIA sarà sempre dalla parte del presidente della Figc, massimo rispetto per le istituzioni. Attraverso la formazione emergeranno qualità, avremo dei riconoscimenti, lotteremo per l’autonomia amministrativa. La libertà vera passa per la libertà economica e culturale. E consolideremo, condividendola, l’autonomia tecnica».
Ma Trentalange fuori dal campo, con questa sua grande sensibilità verso il sociale, chi è?
«Mi piacerebbe vivere di più e meglio quel poco che ho capito del Vangelo: sto combattendo una buona battaglia, mantengo la fede».
«Var straordinario Se non lo si utilizza per presunzione allora è un errore»
«Bisogna ripartire dalle scuole calcio La violenza si batte a livello culturale»